Il prof. Vincenzo Giuffré, ordinario presso la facoltà di giurisprudenza dell'Università di Napoli "Federico II", il 18 agosto 1996 tenendo un convegno sul "Martirio di San Potito nell'ottica della repressione romana" organizzato dalla Commissione storico-scientifica "Pro Culto S. Potito Martire" nei giardini pensili dell'episcopio di Ascoli Satriano così ha scritto sul tema del convegno:
1.- "GLI STUDI MODERNI sulla 'passio' di San Potito hanno tracciato le coordinate cronologiche, storiche, geografiche, topografiche, che rendono credibile non solo il sacrificio di quel fanciullo votatosi a Cristo intorno alla metà del secondo secolo della nostra era, ma anche la collaborazione del personaggio o almeno del suo martorio nella zona facente capo al 'municipium' di Ascoli Satriano, in Puglia, odierna provincia di Foggia. Tutti gli studiosi denunciano però l' 'assurdità della procedura giuridica' e un 'carattere favoloso del racconto' anche a proposito dei modi coercitivi usati.
La presente relazione ambisce a mettere in crisi siffatte affermazioni 8ed a questo soltanto), documentando che le vicende narrate possono corrispondere alla realtà giuridica dei tempi. Ai fini della nostra indagine, non importa stabilire l'imperatore sotto cui fu martirizzato 'Potitus': Antonino Pio (cui si riferisce la prima 'passio' a noi pervenuta) che morì il 7 marzo 161 a Lorium, o Marco Aurelio (figlio adottivo, genero e successore del primo), a seconda che la data dell'esecuzione possa essere collocata rispettivamente nell'anno 154 0 160 oppure 166 (quando vi fu una persecuzione di vasta portata) o in altro anni ancora. Non mi sembra che vi siano dati decisivi per non seguire la tradizione più risalente (risalente alla 'recensio' della 'passio' del IX secolo). Tuttavia la temperie era la medesima: le regole sostanzialmente rimasero immurate.
2.- LA TEMPERIE. Occorre accennarvi, per comprendere certi sviluppi del discorso. faccio riferimento a Marc' Aurelio soltanto perché di lui abbiamo testimonianze autobiografiche (i "pensieri" ovvero le "Meditazioni"). Ebbene, l'imperatore conobbe certamente molti cristiani; tra l'altro ne aveva fra i suoi domestici. ma concepì per loro poca stima. lui, avido lettore, filosofo, pare non abbia mai scorso alcuna redazione dei Vangeli. Perché? In primo luogo, il soprannaturale, che costituiva il fondo del cristianesimo, non gli era congeniale. Poi, era influenzato dalle preclusioni dei suoi precettori (tra cui Frontone) intellettuali che, tra l'altro, erano infastiditi ed offesi dalla concorrenza' di catechisti illetterati in fatto di religione e di etica. Partecipava inoltra alla diffusa percezione dei cristiani(accumunati in questo agli ebrei) come dissacratori della tradizione religiosa e giuspubblicistica romana. per di più, essi apparivano settari ma allo stesso tempo intriganti, che volevano fare a tutti i costi proselitismo, presuntuosi nelle loro certezze. Spesso erano invischiati in beghe con altri gruppi sociali e liti tra loro stessi. una considerazione, questa, di cui sono testimoni anche altri intellettuali contemporanei come ad esempio Elio Aristide (117 o 129 - 181?), autore di quel resoconto di esperienza religiosa personale (oltre che della cosiddetta medicina dei templi) che sono i "Discorsi sacri".
Il che è spiegabile, non appena ci si sforzi di immedesimarsi nelle considerazioni e nelle culture del tempo: è stato osservato che il comportamento dei cristiani nel primo impero è paragonabile a quello di missionari protestanti che, stabilitisi in una città cattolicissima della Spagna di qualche secolo addietro, cominciassero a predicare contro la vergine ed i santi, e ad irridere funzioni solenni e processioni; o, se si vuole, a quello di un libertino inglese che, in piena età vittoriana, fosse scoppiato a ridere in pubblico per il fatto che quel giorno la regina aveva ordinato digiuno e preghiera!
Da stoico, Marco Aurelio era colpito, certo, dal coraggio dei martiri. Però tratto lo sconvolgeva: il loro modo di andare alla morte; la loro aria di trionfo. Una 'bravata' che gli sembrava di cattivo gusto. Lo stoicismo insegnava a sopportare la morte, non a cercarla. Del resto, Epitteto (55?-135?), le cui opere pubblicate postume (le "Lezioni" ed il "Manuale" a cura di Flavio Arriano) ebbero un forte influsso sull'educazione del futuro 'princeps', aveva presentato l' 'eroismo' dei ' galilei' come fanatismo incallito. E così l'imperatore- filosofo annotava: "quando sia ormai arrivato il momento di sciogliersi dal corpo, com'è ammirevole l'anima che è preparata ad estinguersi, o a disperdersi, o a sopravvivere! Ma questa preparazione provenga da un suo giudizio specifico, non corrisponda a semplice ostinazione come quella dei cristiani; sia frutto insomma di ragionamento serio e dignitoso, e tale da convincere gli altri senza pose teatrali!" (11.3).
La imbarazzata sensazione era condivisa da molti. Esemplare, se si fa la tara della rozzezza del personaggio, è un episodio che si svolse nel medesimo torno di tempo: un certo Arrio Antonino, proconsole d'Asia, avendo ordinato processi rigorosi contro alcuni cristiani, si vide comparire in massa in tribunale la locale comunità cristiana che reclamava parimenti la messa a morte; ma egli, presine gli esasperati, scacciò gli altri dicendo:" se tenete tanto a morire, miserabili, avete i pozzi in cui lanciarvi e le corde cui impiccarvi!". L'atteggiamento sia di Antonino Pio che di Marco Aurelio verso i cristiani tuttavia, dal punto di vista normativo (il 'princeps' incominciava ad essere, sia pure 'extra ordinem', la viva 'vox iuris'), non comportò inasprimenti nella persecuzione/repressione. Anzi. A proposito del secondo Tertulliano, il quale nella giovinezza fu testimone oculare della sua politica, ricorda che, "anche se non revocò apertamente gli editti contro i nostri fratelli, ne spuntò gli effetti con pene severe per i delatori
3.- LE REGOLE. Ecco, proprio il riscontro delle 'regole' ci permette di asserire che elementi di presunta inverosimiglianza della 'passio S.Potiti' corrispondono, invece, alle prassi processuali dell'epoca.
A) Partiamo dell'età di Potito.
Dodicenne. Poco più, poco meno non importa (non esistevano registri di nascita; e il calcolo personale degli anni era approssimativo). Potrebbe apparire come elemento poco credibile che un fanciullo fosse sottoposto a processo, accanite torture e atroci pene. Invece, non è così. D'altra parte, basti considerare che, nonostante la moderna criminologia, gli art.97-98 del nostro codice penale stabiliscono che "è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, aveva compiuto i quattordici anni" (con la duplice previsione che, se non ha compiuto i diciotto, occorre stabilire "se aveva capacità d'intendere e di volere", e che 2la pena è diminuita"). Né si dica che ciò corrisponde al riscontro di una più rapida crescita intellettuale e morale nella nostra società, giacché il Codice penale rispecchia la società degli anno '20 del secolo scorso. E' recentissimo, del resto, la proposta, molto discussa, d un alto ed esperto magistrato di tribunali minorili, Stefano Trapani, di abbassare l'imputabilità, almeno per certi fini, proprio a dodici anni.
Per diritto romano non abbiamo testimonianze, solo indizi, eloquenti però. Plinio il Giovane(nella corrispondenza con Traiano cui ci riferiremo tra poco) pose il dubbio, specificatamente a proposito delle 'cognitiones de Christianis', del se vi fosse "aliquod discrimen aetatum"; ma l'imperatore dovette lasciar cadere l'interrogativo. Un giurista tardo, Trifonino, in relazione alla repressione criminale in generale, riferisce soltanto di una generica "miseratio Aetatis" 8sia pure per i minori addirittura di venticinque anni) che avrebbe dovuto indurre il giudice tuttavia solo "ad mediocrem poenam". Da quel che si dirà tra un momento sulla tortura può inferirsi tuttavia con notevole tranquillità che un dodicenne ben poteva essere processato e giustiziato.
B) Inquisitio.
Essa dovette essere provocata da una 'delatio/accusatio'. sappiamo che già con traiano il processo a cristiani non doveva svolgersi d'ufficio o sulla base di semolici voci: "conquirendi non sunt" - precisa il principe a Plinio-, "si deferantur et arguantur". Ma non conosciamo chi scatenò la condanna del povero Potito. Del resto, gli atti dei martiri non riportavano quasi mai i nomi degli accusatori. Possiamo supporre però il perché dell' accusatio/delatio di Potito.
Ascoli Satriano, come tanti altri centri, italici e non, non doveva essere affatto cristianizzata all'epoca. I seguaci della nuova religione verosimilmente erano una minoranza. E doveva fare scalpore quel fanciullo (catechizzato chissà da chi) cos' fermo nella fede da trascinare con sé il padre, e poi altri. Sicuro ed impertinente - lo si rileva dal processo -. Lo immagino. orfano (ché della madre non v'è cenno le angherie del padre, se già cristiana anch'essa, o che si convertisse come il marito), sempre fuori di casa quando il padre, che il nome denuncerebbe di origine levatina, era fuori per i suoi affari; bamboleggiato dalle signore e dagli umili del paese, le cui coscienze egli turbava; maturo ed autonomo da potersi anche allontanare alcun tempo, magari per condurvi vita contemplativa (nel racconto viene arrestato su un nome).
Le voci si spargevano. accavallano, ingigantivano: frastornarono l'opinione pubblica di quella pur sempre piccola comunità apula, dove (immagino ancora) per qualche tempo non si parlò d'altro fra comari e nelle bettole; ne superarono i confini, e arrivarono a Roma. Ascoli Satriano doveva essere anche uno snodo di commerci, comunque una cittadina non isolata, data la sua posizione. Di fronte all'aggregato urbano, sulla sponda occidentale del Carapelle, sono state individuate tracce di due sistemi di centuriazione sovrapposti, menzionati in un lemma del "Liber coloniarum" (CIL. IX 62 ss.). Il territorio era stato oggetto di colonizzazioni. Dove si sarebbe andati a finire se la capacità di convincere di quel ragazzotto non fosse stata stroncata? Una diffusione epidermica della nuova 'superstitio'! Di qui la richiesta, da parte di qualche gruppo, ovvero del solito benpensante, più o meno disinteressato, di intervento dell'autorità. In sede locale, o direttamente a Roma, non è possibile divinare, e qui non importa.
C) Torniamo all'istruzione del processo.
Secondo il racconto - che qui si segue depurandolo di articolari di probabile matura interpolatizia tarda - l'autorità presso cui Potito fu tradotto a Roma (autorità identificata nell'imperatore Antonino Pio in persona), dopo l'arresto, gli chiese immediatamente "Quid gens es tu?" ('a quale comunità appartieni?') e ne ebbe per risposta "Christianus sum". E' il tipico interrogatorio iniziale attestatoci dagli atti dei martiri di riconosciuta di cui diremo tra poco.
Altrettanto consueto l'avvertimento "Non scis praecepta principum, quia qui non sacrificaverit diis periet?", 'non conosci le disposizioni dei prinpici, per cuiè estinto a morire chi non sacrificherà agli dèi?'. Ma Potito: "Et ego hoc desidero", 'proprio questo io desidero' - un atteggiamento che sappiamo generalizzato -.
A fronte di altre esternazioni di fede e di manifestazioni di poteri che apparivano sovrannaturali (l'esorcizzazione di una giovane, che la 'passio' identifica con la figlia dell'imperatore, forse per influenza di una tradizione che attribuiva a Faustina Minore, andata in sposa a Marco Aurelio nel 145, un comportamento a dir così vivace, volubile ed immorale), l'autorità, rivolta ai presenti, esclama (si badi sin da ora): "Iste per maleficia fecit omnia", 'costui ha fatto tutto per mezzo di arti magiche'.
Segue un dialogo, pur esso rispecchiante le consuete annotazioni a verbale di altri processi a cristiani. Potito ribatte "Erras...", 'ti sbagli'. la risposta infastidita è "Dimitte ista verba quae loqueris et sacrifica diis meis...", 'smettila con queste chiacchiere e sacrifica ai miei dèi'. Di rimbalzo, "Numquam tibi it bene...", 'guai a te'. Replica: "Adhucsuperbae loqueris?", 'ancora parole superbe?'; e Potito "Minas tuas non pertimeco", 'non ho paura delle tue minacce'.
Allora: "Aut sacrifica diis aut iubeo te per multa exempla perire", 'o sacrifichi agli dèi o darò ordine che tu perisca tra molti tormenti'; Potito, pronto "Peries tuin regnum tuum...", 'perirai tu con tutto il tuo regno'. L'utorità, tra lo spazientito ed il condiscendente, "Adhuc iniuria mea respondis'", 'rispondi ancora con ingiurie?', ma "Quantum te sustineo dolet me de infantia quoniam te feceres traditurum", 'sappi, insomma, che sto pazientando solo perché mi duole della tuainfanzia, che ti accingo a mandare in rovina'. Ancora Potito: "De te dole",,'di te devi dolerti'.
Per ciò il fanciullo venne spogliato e battuto con le veghe ("...fustibus mactaverunt eum..."), mentre egli inneggiava "Gratias ago Domino meo Iesu Christo", "Benedicam te, Domine, quia haec omnes nomen tuum patior" ('...sopporto tutto questo in tuo nome, o Signore').
Ma ancora lo si avverte. "Quia vis mori?", 'perché vuoi morire?'.
In ogni caso è portato dinanzi a statue di dèi. Certo il racconto prosegue nel senso che egli le polverizzò; e tutto l'episodio può apparire una invenzione. Tuttavia, anche a non voler credere in un eclatante miracolo, il fatto che il fanciullo non fosse stato intimidito dalle divinità pagane ben può essere stato tramandato e/o interpretato in seguito come l'averle 'annientate', 'polverizzate'. In realtà, l'invito ad adorare gli dèi era un modo per dare al prevenuto una chanche di abiurare. In merito abbiamo la testimonianza diretta costituita dalla corrispondenza (alcuni decenni prima dell'episodio di san Potito, precisamente nel 112) tra Plinio, governatore della Bitinia, e l'imperatore Traiano (che di Plinio, tra l'altro, era amico). "Lettere" 10.96-97: per quanto non vi fosse una procedura prestabilita ("certa forma2), l'imputato doveva essere provocato ad un atto di devozione verso gli dèi del popolo romano ("supplicando dis nostris") - si badi come Traiano non esiga la prostrazione verso l'immagine dell'imperatore -, in modo che e accondiscendeva lo si doveva ritenere estraneo al 'nomen Christianum' o apostata ("quamvis suspectus in praeteritum"). Ed un giudice scrupoloso doveva reiterare l'avvertimento a che l'imputato recedesse dalla sua confessione e poi doveva comunque sottoporlo alla prova dell'omaggio agli dèi. Difatti, insomma, la politica romana non mirava a fare dei martiri, ma ad ottenere l'apostasia, soprattutto per tacitare l'opinione pubblica che reagiva all'atteggiamento intransigente e talvolta provocatorio degli adepti alla uova religione con odi di massa, iniziative delatorie e persino tumulti se le autorità non erano zelanti nel promuovere e portare a compimento azioni punitive contro i cristiani.
D) Fase della custodia cautelare.
Potito venne condotto quindi in carcere dove gli si mise una pesante catena al collo.
La incarcerazione in vista del processo (ovvero del suo prosieguo) o dell'esecuzione della condanna, nell'età del principato, era operazione consueta. Si dubita solo che il carcere fosse ordinato già allora come pena (ma il dubbio resta anche per le età successive): "il carcere infatti - scriverà Ulpiano da lì ad un cinquantennio - è destinato a custodire gli uomini, non a punirli" (l'affermazione, tratta dall'opera "De officio proconsulis", è riportata nel Digesto di Giustiniano al luogo 48, 19, 8, 9).
Ordinario era anche che alla "custodia" nel carcere s'accompagnasse, specie per gli appartenenti alla fascia degli 'humiliores', la 'severitas' dell'uso di 'vincula', catene, per l'appunto, ceppi et similia.
Dallo studio di altre 'passiones' emerge, tra l'altro, chela " 'damnatio' in vincula temporalia" aveva spesso pure la funzione di concedere ancora un tempo di riflessione all'imputato e di indurlo finalmente a rinnegare il Cristo.
E) Ma Potito, evidentemente, non abiurò.
Incomincia quindi una fase che può essere interpretata o come di tortura ai fini (per così dire) dell'estorsione di una confessione (vedremo poi di quali pretesi misfatti) o già di inflizione di pene. Questo passaggio merita qualche notazione. in rimo luogo, non doveva essere insolito che l'esecuzione o altra punizione non avvenisse 'illico et immediate': sebbene molto più tardi, abbiamo l'episodio di Celerino, che, dopo aver confessato di essere cristiano, in Roma dinanzi allo stesso imperatore Decio (249-251) e dopo diciannove giorni di carcere e di tortura, fu rimesso temporaneamente in libertà e poté raggiungere la comunità di Cartagine ed esservi persino ordinato 'lettore' (Cipriano, "Lettere" 22 e 29). Pura dopo un editto di Valeriano del 258 il quale stabiliva che vescovi, presbiteri e diaconi fossero giustiziati immediatamente, sta difatti che essi restavano in carcere per lungo tempo (ancora Cipriano. opera citata, 80).
In verità, l'esposizione al fuoco, il tagliuzzamento di membra e così via (vedremo tra poco gli orripilanti 'tormanta') potevano ben essere attuazione di pene corporali prodromiche, per così dire, a quella di morte, o meglio intese comunque a far giungere alla morte. Del resto, Potito era stato minacciato che sarebbe stato giustiziato tra molti tormenti. Ed era nella tradizione coercitiva romana che la morte, in articolare quella per decapitazione, fosse accompagnata, più precisamente preceduta, da atrocità varie: già in età arcaica - si ricorderà - il 'rex' aveva fra le insegne del potere, portate dai suoi aiutanti (e all'occorrenza boia), i 'lictores', i fasci littori per l'appunto, ossia verghe di olmo o di betulla tenute insieme da una cinghia dal significativo colore rosso che stringeva al centro una scure con la lama orientata verso l'esterno; ebbene le 'virgae' venivano utilizzate proprio per flagellare il reo prima di decapitarlo con la 'securis'. Ma, nel caso di Potito, sarei portato ad escludere ciò, sia perché la morte fu inflitta a distanza di tempo e di luogo, sia perché i 'tormenta', quei 'tormanta' usati, danno la sensazione di essere strumentali ad estorcere qualche altra ammissione al giovane, al di là della ostinata dichiarazione di essere cristiano.
Seconda notazione. La funzione istruttoria e la finalità afflittiva del carcere e della tortura talvolta si intersecavano nella mentalità e nella prassi dei romani a partire dal tardo Principato: è stato detto, ed è vero, che il diritto penale dei romani era "pessimo, e in parte veramente infame" (lo qualificò così nientemeno che Teodoro Mommsen), giacché (aggiungeva il Carrara, uno dei fondatori della penalistica italiana) i romani furono giganti per quanto attiene alla costruzione del 'ius privatum' e invece "pigmei" in fatto di criminologia. Ma non c'è da meravigliarsi poi molto, sol che si rifletta sul fatto che ancora oggi, presso do noi, certe carcerazioni preventive magari prorogare con la contestazione via via di ulteriori reati (anche se motivate col pericolo dell'inquinamento delle prove o della fuga dell'indagato e della possibilità che il comportamento criminoso venga continuato) appaiono all'evidenza come intese ad ottenere dagli inquisiti ammissioni e chiamate di correi nonché a far pagare loro subito il fio del malfatto; e, purtroppo, certa opinione pubblica le apprezza per quel che appaiono.
Terza notazione. la personalità del giovanissimo Potito, e la sua fama erano inquietanti. Vedremo: sembrerebbe sospettato soprattutto di magia. Sì, di magia.
Cosa venne praticata al povero fanciullo? Secondo il racconto della prima 'passio' pervenutaci:
1. fu condotto nell'anfiteatro ed appeso ad un cavalletto con fiaccole accese ai fianchi;
2. con un terribile crescendo, gli furono poi strappate le unghie;
3. tolto dal cavalletto, fu esposto alle belve (il fatto che non lo sbranarono può essere stato miracoloso, ma non era infrequente, data la sazietà che prendeva le belve, le quali, come dire, avevano a disposizione molte vittime...);
4. gli vennero praticati tagli sulla pelle;
5. fu scottato con olio bollente;
6. gli fu versato addosso del piombo fuso;
7. con un "chiodo" appuntito ed arroventato si tentò di squarciargli il cranio;
8. infine, gli tagliarono la lingua e punzecchiarono gli occhi.
Talune di siffatte atrocità sembrano interpolare nel racconto, giacché riferiscono tecniche (come l'uso del piombo fuso) che sono documentate più tardi e non nell'ambiente occidentale. Gli esiti di taluni 'tormenta' sembrano, sul piano umano, non plausibili. Epperò altre atrocità e la loro inutilità sono testimoniate in atti fidefacenti. Il !Martirio di San Policarpo" 8i fatti si svolsero a Smirne e sono databili dal 155 al 169, ossia proprio negli anni di Potito) riferisce che "il coraggiosissimo Germanico...mentre il proconsole voleva persuaderlo e gli diceva di aver compassione della sua età...tirò a forza contro di sé la fiera..." sicché la folla, inferocita, si mise ad urlsre "A morte gli atei, si cerchi Policarpo" (nella mentalità pagana, i cristiani erano "atei"). Invece "un frigio di nome Quinto...alla vista delle fiere fu preso da viltà" e "il proconsole, con insistenti argomentazioni, lo convinse a giurare e a sacrificare". La stessa cosa non gli riuscì a Policarpo, pur ultraottantenne, cui minacciò - come nella vicenda di Potito - "Ho le fiere, ti getterò in pasto ad esse", "Ti farò distruggere dal fuoco, se disprezzi le fiere...".
Le pratiche di tortura erano di certo orripilanti. Cicerone - e s'era nella tarda 'libera repubblica' - nella orazione 2In difesa di Cluenzio" (63.176 ss.) racconta come a Lariano una malvagia, Sassia, peraltro privatamente ed al fine di estorcere dichiarazioni su cui imbastire un'accusa, fece torturare tre giovani (benvero, però, schiavi: Stratone, Ascla e Nicostrato) alla presenza di un consiglio di vicini. Tale fu la ferocia ("i torturatori e persino gli strumenti erano sfiancati...") che "i testimoni ne restano disgustati e non resistono a quello spettacolo" sino a che "uno..., persona che aveva rivestito cariche pubbliche e dotata di altissima moralità (sic!), intervenne dicendo che gli sembrava che la tortura si svolgesse non per raggiungere la verità...". Ma dopo tre anni (id. 65.182) la privata 'quaestio per tormenta' riprese sui malcapitati Stragone e Nicostrato.
Dunque, "tormenti" potevano ben essere inflitti a fini istruttorii.
Anche su minori? Certo. Abbiamo una testimonianza tecnica questa volta, e riferita proprio alla nostra età. Quella di Callistrato (nel libro V del suo "De cognitionibus", di cui uno squarcio è riportato anch'esso in D.48. 1. 15. pr.-1). Il giurista riferisce (e tenta di slargarne l'applicazione) un rescritto di Antonino Pio, il quale aveva disposto di non sottoporre ad 'interrogatorio forzato' un testimone di accusa minore di quattordici anni "maxime cum nullis extrinsecus argumentis accusatio impleatur" (non all'imputato), e si riferiva ad un caso in cui l'imputazione non era suffragata da alcun indizio. nelle altre fattispecie (quando si fosse trattato di imputato o di testimone per un'accusa basata su qualche 'argumentum')la tortura era ammessa de plano. Marco Aurelio (con la costituzione conservata nel 'Codex' giustinianeo 9.41.11) circoscrisse ancora l'assoggettabilità alla tortura, ma solo escludendone gli appartenenti a fasce sociali elevate. Figurarsi la sorte di un poveraccio come Potito, mezzo orientale, figlio di Hylas, un 'provinciale' d'Ascoli Satriano. Per di più - San Potito mi perdoni - indisponente, sì, proprio indisponente.
Quel diritto criminale dei romani! Già. Si ricordi però che il monaco vallombrosano Federico Fachinei replicava al Beccaria (la cui opera, se ua, fu messa all'indice l'anno successivo) che "non v'è tempo in cui più scopertamente traspiri l'innocenza o l'iniquità di un uomo,...allorché
Una notazione ancora. Realistica la capacità di sopportare da parte dei cristiani? Sempre e solo effetto dell'aiuto divino? Basti leggere un passo dell'opera "Sul digiuno" (cap. 12) di Tertulliano (160-240(, comunque significativo per se deve essere calato nelle polemiche del tempo e inteso come 'messaggio' 8a suoi correligionari o a sospettosi detrattori). "ecco - scrive Tertulliano - come ci si abitua alla prigione, alla fame, alle privazioni e alle angosce; ecco come il martire impara ad uscire dalla prigione così come ò entrato, non incontrandovi affatto dolori sconosciuti, non trovando che le sue macerazioni quotidiane, certo di vincere la lotta, perché ha ucciso la sua carne, e i suoi tormenti no hanno cosa mordergli. La sua pelle disseccata gli servirà da corazza; le unghie di ferro gli scivoleranno come su un corno spesso. Così sarà colui il quale, grazie al digiuno, ha visto sovente da vicino la morte e si è liberato del suo sangue, fardello pesante e importuno per l'anima impaziente di scappare". E' stato detto (da Ernest Renan) che la "preparazione al martirio" era "una sorta di allenamento analogo a quello dei gladiatori" anch'essi coscientemente votati alla morte. Paragone irriverente, tuttavia efficace. Ma si badi che pure Tertulliano pose il problema e lo risolse , almeno ufficialmente, sul piano dell'umano, non sotto il profilo del miracoloso, ché non attribuiva la capacità di resistenza solo ad un aiuto 'ab extrinseco', di Dio. Eppure non credo che dubitasse della 'santità' dei martiri, e tanto meno della Grazia di Dio.
F) "Decollatus est...super flumen qui dicitur Calabius" (al confine tra Sannio e Puglie, presso un affluente dell'Ofanto). Dunque, finalmente la condanna capitale fu pronunciata.
Sorge, a questo punto, l'interrogativo se quello a cui abbiamo assistito possa essere qualificato un 'processo' penale ai sensi del 'ius Romanorum'. Anche questa volta la risposta è positiva. Il dubbio è legittimo. Infatti, il fior fiore di studiosi, proprio perché si è trovato di fronte a modi spicci di tal genere, ha ritenuto che la persecuzione dei cristiani non avvenisse in via giudiziaria ma mediante mere azioni di polizia. Viceversa, non dobbiamo lasciarci fuorviare né dallo spettaxolo dei grandi processi moderni rappresentati o ripresi dal cinema e dalla televisione, né dall'elaborata procedura raccontataci dalle fonti antiche a proposito del così detto processo comiziale o che emerge dalle orazioni ciceroniane in relazioni ai processi che si svolgevano dinanzi alle corti permanenti dette "quaestiones perpetuae" (formalizzazione dell' 'accusatio' , varie udienze, istruttoria, dibattimento con arringhe, anche plurime, dell'una parte e dell'altra). In primo luogo, il processo criminale che si svolgeva, nel corso del principato, secondo moduli 'extra ordinem'. era divenuto di per sé spiccio ed arbitrario: Plinio (ancora lui) nell'epistolario (6.31) riferisce di un processo penale di cui fu giudice traiano a Centocelle (l'odierna Civitavecchia9, a carico di tale Gallitta, moglie di un tribuno militare, rea di adulterio con un centurione; ebbene, nonostante qualche complicazione d'ordine giuridico, il tutto si svolge qualche complicazione d'ordine giuridico, il tutto si svolge in mezza mattinata, in modo rapido, d'istinto, senza formalità. Nel cso dei processi a cristiani il procedimento era di fatto ancor più semplificato dalla circostanza che la 'delatio' non era di solito contestata, anzi l'accusato ammetteva quanto addebitatogli (l'essere cristiano) e sfidava il martirio: ergo, l'accusatore non doveva insistere e convincere il giudicante, non occorreva acquisire documenti o escutere testimoni, non v'erano arringhe di difensori (e non perché non fosse ammessa la 'mercenaria advocatio'. bensì. com'è evidente, perché l'accusato non contestava il fatto di essere cristiano), tanto meno v'era la proposizione di un qualche 'appello'. le cose sarebbero andate ancora più de plano se il giudice non avesse avuto lo scrupolo i insistere, anche se talvolta con modi bruschi o addirittura spietati, al fine di estorcere - come si diceva - una ritrattazione della confessione.
G) Secondo la 'passio', fu Potito ad impetrare di essere giustiziato in 'Apulia'. Certo è (si fa per dire) che la esecuzione avvenne in un luogo, che viene identificato con il territorio di Ascoli Satriano, diverso da quello del processo, il quale potrebbe, anzi dovrebbe, essersi svolto, almeno per le fasi salienti, proprio a Roma e dinanzi al prefetto della città o al prefetto del pretorio o che per essi (solo verso la fine del secondo secolo la competenza del 'praefectus urbi' venne limitata al 'centesimum miliarium' dall'Urbe stessa ed affidata al 'praefectus praetorio': per il che si vedano soprattutto Stazio, "Selve" I,4. 11, il punto 11.9 della "Vita di Marco Aurelio" nella 'Historia Augusta', e Dione Cassio, "storia romana" 52. 21. 2). Infatti, generalmente si ritiene che i magistrati municipali, essendo titolari di una 'coercendi potestas' e non di pieno 'imperium', non avessero il potere di irrogare pene capitali. D'altra parte, sono da mettere in conto la peculiare personalità del ragazzo e la eccezionale risonanza di quelle che venivano interpretate come sue capacità taumaturgiche, anzi magiche, che ben avrebbero potuto attirare comunque l'attenzione della corte romana. Altrettanto generalmente ammesso è che l'esecuzione della pena potesse essere affidata ad organi locali.
Invero, le ricerche sulla problematica della repressione criminale nel 'municipia' italici, nell'età dell'inoltrato principato, è ancora allo stadio iniziale. E in materia di rapporti tra comunità d'origine o di residenza e centri di repressione dei cristiani, soltanto qualche suggestione possiamo dedurre da episodi testimoniatici, i quali peraltro si collocano più tardi e fuori dell'area geografico-amministrativa che ci interessa. Così, nella 'passio' di crispina (ma siamo agli inizi del quarto secolo, in Africa e per di più la redazione a noi giunta è piuttosto rimaneggiata) è riferito che prima di pronunciare la sentezza 8si badi al suo contenuto: "gladio eam animadverti") il proconsole Anulino, competente in provincia, ordinò la rilettura di atti: "acta ex codice, quae dicta sunt, relegantur". ed è stato supposto che questa procedura, un unicum nelle fonti sui processi contro cristiani, fosse dovuta al fatto che il giudizio, si sarebbe svolto in più sedute e sedi, di cui una evenutalmente presso i magistati municipali (crispina era di Tagora,ma fu giustiziata a Teveste il 5 dicembre 304). Una costituzione dell'imperatore Massimino,in Oriente, nel 306, a sua volta impartiva istruzioni ai funzionari municipali circa le liste dei cittadini da invitare a compiere, individualmente, uno ad uno, il sacrificio prescritto (Eusebio, "dei martiri della Palestina" (3.1).
Tutto quello che può dirsi quindi, nella presente sede, è che non sia stata sconosciuta una repressione attuata in danno di un cristiano con sfasature di tempi e di luoghi per quanto atteneva a processo e d esecuzione della condanna.
4.-'DECOLLATO': decapitato. decapitato, molto probabilmente, con la spada.
La decapitazione è esecuzione capitale antichissima: originariamente avveniva, come si diceva, con la 'scure' (più precisamente, almeno più tardi, con l'ascia, giacché l'arma che decapitava ebbe l'orientamento del taglio trasversale al manico, mentre la scure propriamente detta è caratterizzata da un orientamento del taglio parallelo al manico); dall' età del Principato, con la spada. Ancora nella tarda repubblica la spada era invece poco usata: a proposito della morte di Pompeo, Lucano, non senza cinica ironia, annotò che i romani non erano adusi al colpo circolare della spada, "nondum artis erat caput rotare" ("Pharsalia" 8. 673). Viceversa, Ulpiano (D.48.19.8.1) annota: "animadverteri gladio oportet, non securi", 'bisogna eseguire le sentenze capitali con la spada, non col la scure'.
Il rito avveniva di solito fuori del centro abitato. Tuttavia la popolazione era invitata ad assistervi. la decapitazione, infatti, aveva tradizionalmente il senso di riaffermazione del potere dello Stato. Una 'funzione', questa, che si adattava benissimo al caso dei cristiani, la cui 'colpa' prime era quella di contestare nientemeno che la onnipotenza dell'Imperium Romanum.
5.- DUNQUE, quella di POTITO ben può essere una APOLOGETICA drammatizzazione, ma non falsa: non falsa - sia chiaro - non nel senso che corrisponda senz'altro proprio ai fatti individui come si svolsero, ma nl senso che quanto meno possa essere stata ricavata su tracce fidefacenti (atti processuali, appunti privati via via ricopiati, racconti utoptici tramandati verbalmente da generazione in generazione e poi ripresi, fissati ed abbelliti in scritti edificanti, in pastorali e così via).
Il proposito, è bene ricordare che almeno dal primo secolo dopo Cristo è attestata la presenza di cancellieri e/o stenografi ("ii, qui notis scribunt acta...", secondo il giurista Modestino, in D.4.6.33). le redazioni avvenivano su tavolette cerate; le trascrizioni ufficiali riassumevano gli accadimenti, spesso mantenendo però la forma del discorso diretto (domanda, risposta), e si chiudevano con il dispositivo della sentenza. che talune 'passiones, gesta' (più raramente 'lectiones' ed addirittura 'acta') corrispondevano agli 'acta' in senso tecnico (nell'accezione cioè di verbali di udienze giudiziarie o resoconti anche di arresto, detenzione, esecuzione) è ormai acclarato.
Abbiamo pure notizia che era possibile avere copie di siffatti 'protocolli': vi sono tracce di comunità cristiane che le richiesero. Ed i motivi che spingevano i cristiani a procurarsi il maggior numero possibile di informazioni sui processi erano più d'uno: principalmente quello di ricordare e celebrare i propri fratelli di fede che s'erano sacrificati; ma anche quello di strumentalizzare il numero e novero nonché l'atteggiamento dei martiri nelle polemiche sul da farsi di fronte alle misure persecutorie (esporsi o sottrarsi), polemiche che dal secondo secolo assunsero una notevole rilevanza e coloriture ereticali. Ciò che, però, portò pure alla falsificazione, nell'intento di trovare elementi a favore delle proprie tesi. la storia della Chiesa primitiva è tutt'altro che esente da falsi. Giustino, proprio nel secondo secolo, in uno scritto apologetico rivolto ai pagani aveva l'ardire di menzionare (ed era Giustino!) gli 'atti di Ponzio Pilato' ("Apologie" I,35.9 e 48.3). Più tardi, a partire dal quarto secolo, dopo l'affermazione del Cristianesimo, le figure dei martiri finirono con il testimoniare, mercé la sovrumana capacità di resistere a tutti i tormenti e l'audacia della sfida ai magistrati, la natura imperitura della comunità cristiana e quindi la forza della Chiesa. Con il che le riproduzioni dei documenti e dei racconti antichi furono indotte ad ulteriori manipolazioni, presentando il persecutore (principe o magistrato) come efferato e sadico strumento del demonio e l'accusato come un intrepido campione, insensibile ad ogni prova, capace di controbattere sino al palese oltraggio.
Ma sta in fatto che, per un motivo o per un altro, la documentazione che qui interessa fu sempre al centro dell'attenzione. Dopo la distruzione di molto materiale custodito da privati cristiani o da comunità ecclesiali e monacali a seguito della confisca ordinata da Diocleziano - del che rimane eco ancora alla fine del quarto secolo nella poetica doglianza di Prudenzio ("Peristefanon" o "Corone del martirio" 1. 75-78) - un cenno dei "Sermoni" di Agostino (315. 1 = P.L.38, 1426) ci fa comprendere che si svolsero faticose ricerche dei 'gesta martyrum' (forse soprattutto negli archivi imperiali). Difatti la "Raccolta sugli antichi martiri" di Eusebio scritta poco prima della metà del quarto secolo, si fonda su materiali reperti in ricostruite 'biblioteche'.
Le recensione della 'passio' di san Potito sembrano peccare nel senso di interpretare come 'miracoli' talune circostanze, spiegabili invece altrimenti. Ciò era in linea con quanto si diceva circa l'indirizza delle rielaborazioni degli atti dei martiri avvenute dopo il trionfo del cristianesimo. la prima 'passio S. Potiti' a noi pervenuta potrebbe derivare da una di queste rielaborazioni.
Conclusione. Gli episodi riferiti dalla tradizione si incastonano tutti nel modus procedendi della repressione criminale dell'epoca. Questo, dunque, sembra confermare la veridicità della tradizione stessa, giacché è improbabile che un tardo falsario il quale avesse inventato tutto fosse così ben informato di una procedura all'epoca sua desueta.
6.- DI CHE FU ACCUSATO, PERCHE' FU GIUSTIZIATO POTITO?
E' una domanda che si ripropone da secoli: quale il 'crimen' per cui venivano perseguitati i cristiani. A noi interessa poiché, se è plausibile la proposta individuazione dei sospetti verso Potito (essenzialmente di magia), ne esce corroborata la attendibilità dell'iter che ebbe epilogo con la sua decapitazione, il quale altrimenti potrebbe apparire eccessivamente ed innaturalmente complicato per un semplice giudizio avverso un cristiano per di più giovanissimo.
Le tesi, com'è noto sono raggruppabili essenzialmente in tre gruppi:
1. il primo (che risale al grande Mommsen ma è presente oltre che nella storiografia successiva tedesca anche in quella inglese) ritiene che la repressione, un fatto essenzialmente di polizia, fosse motivata solo dal rifiuto di riconoscere i culti nazionali/statali e quindi la 'maiestas populi Romani (Caesaris)',ma incontra non poche smentite nelle fonti, oltre tutto perché sono attestati normali processi 'pro tribunali';
2. le seconda serie di tesi (nella storiografia italiana, un nome per tutti, Marita Sordi) sostiene che vi fosse un provvedimento normativo generale di incriminazione ad hoc dei cristiani, di Tiberio o Nerone o Domiziano, ma non è assistita da inoppugnabile fondamento testuale;
3. il terso ordine di ipotesi sottolinea che la repressione avveniva secondo l'ordinamento penale comune, attribuendosi ai cristiani, di volta in volta, crimini di associazione illecita, ateismo, introduzione di culto straniero, infanticidio, cannibalismo, incesto, piromania, magia et similia - 'crimina' contro cui ancora gli apologisti del secondo secolo dovevano difendere i correligionari -, salvo che siffatti reati erano 'presunti' allorché risultava il semplice "nomen Christianum".
Quest'ultima è la tesi che, allo stato delle testimonianze, appare più vicina al vero, almeno per il momento storico che qui interessa. Volendo esemplificare e semplificare, basti ricordare che Plinio, nell'epistola anche sopra ricordata (10.96), pose il problema se egli dovesse determinarsi a condannare per il "nomen (Christianum) ipsum" o per i "flagitia cohaerentia". Ma l'imperatore lasciò correre: Purché il prevenuto risultasse cristiano... Tertulliano mette bene in luce l'assurdità della politica giudiziaria imperiale in materia, secondo cui i cristiani sono accusati di plurimi ed atroci crimini, ma poi sulla loro commissione non s'indaga affatto, giacché si è condannati in quanto cristiani, dunque alla fin fine "sine titulo" ("Alle genti" 1.2.7, "Apologetico" 2.8, 2.2, 4.20, 44.2, eccetera). Del resto, una lettera apologetica degli inizi del secondo secolo, rivolta ai fedeli d'Asia Minore, mostra come si fosse generalmente consapevoli di ciò, poiché esortava ognuno a difendersi in giudizio se veniva accusato di specifiche malefatte, ma ad accettare l'imputazione (generica9 di 'delinquente in quanto cristiano': "nessuno di voi abbia a subire una pena come assassino, o ladro, o malfattore, o per aver desiderato le cose altrui; ma se la subirà in quanto cristiano, non si vergogni" (Prima epistola di Pietro" 4. 15-16).
Soprattutto la fama di 'maghi' per i cristiani era annosa e persistente. Un senatoconsulto di Pomponio e Rufo del 17 d.C. ricordato da Ulpiano (in un passo escerpito dalla sua opera e incluso nella anonima silloge denominata 'Collatio legum Romanorum et Mosaicarum, 15.2.1) puniva 'mathematici, Chaldaei, harioli' e comunque 'caeteri' "qui similia...fecerunt" , formula sotto la quale si è sospettato che fossero talvolta inseriti i cristiani. celso, il polemista contro il crisianesimo, nel "Discorso veritiero" scritto intorno al 178-180, attribuiva ancora sia a Gesù cristo sia a San Pietro qualità di maghi (1.6,6.42,7.36). ed Agostino, oltre due secoli dopo, conferma che alcuni, prestando fede ad un falso oracolo, videro in San Pietro un 'arcimago' ("La Città di Cartagine, il 17 luglio 180) si legge che il proconsole Vigellio Saturnino chiese "Quae sunt res in capsa vestra'" (insomma, 'che libri avete nella vostra biblioteca?', 'capsa' era la cassetta dove venivano conservati i rotoli di papiro costituenti i libri): e "Speratus dixit: Libri et epistulae Pauli viri iusti". Che altro poteva cercare il governatore romano, se non scritti d'arte magica con le relative formule? Difatti, come abbiamo visto, in altre circostanze i libri sacri furono sequestrati. Ancora. Ulpiano (in un altro passo conservatoci sempre dalla 'Callatio', 15,4) ricordava che una costituzione di Antonino Pio ed una, assai più nota, di Marco Aurelio prescrivevano di punire duramente i 'vaticinatores', giacché rivelavano o inventavano e spargevano ai quattro venti notizie terribili e pericolose affermando di operare "ex monitu deorum". Secondo le tarde "Sentenze di Paolo" (5.21.2-3), rientravano fra i cultori della 'magica ars' anche coloro che introducevano nuove sette e religioni prive di basi razionali ("ratione religiones incognitae") quando esse turbavano l'animo popolare: ed erano deportati se 'honestiores', decapitati se 'humiliores'. Un senatoconsulto (non sappiamo se il medesimo del 17 d.C. sopra menzionato) riconduceva sotto le fattispecie della sillana 'lex Cornelia de sicariis et veneficis' dell'81 a.C. il 'facere' "mala sacrificia" (ne parla il tardo giurista Modestino, in D. 48.8,13), cioè si svolgessero specialmente di notte.
Ora, persino tacito aveva visto nella religione cristiana una "superstitio exitiabilis", cui attribuiva un atteggiamento antisociale, un "odium huani generis" ("Annai" 15.44.5-6), sicché per Svetonio ("Vita di Nerone" 16.3) si trattava di cosa "nova ac malefica". Spaventava, poi, la recitazione corale e personale delle preghiere, intese come formule magiche (di magia nera, "goeteia") per raggiungere fini 'malvagi'. Turbava il ricordo delle riunioni notturne segrete dei primi tempi. La previsione di una fine del mondo e prima ancora la previsione, quando non l'invocazione o la minaccia della catastrofe dell'Imero pagano (una eco è anche nelle parole di Potito), non dovevano di certo essere bene accette in un' "epoca di angoscia" quale fu il tardo secondo secolo e vieppiù il terzo. Il tutto avveniva richiamandosi al 'monitus' di un 'deus' per di più 'incognitus'. si aggiungano, last but not least, le manifestazioni miracolose, veritiere e inventate, le cui notizie si spargevano di comunità in comunità, di città in città. Di tal che era naturale che - come si doleva Tertulliano ("Apologetico" 40.29 - "se il Tevere straripa, se il Nilo non ha la piena, se c'è afa, se la terra trema, se viene una carestia o una epidemia, "i cristiani ai leoni!".
A siffatti atteggiamenti di psicologia di massa non erano estranei, poi, estemporanee strumentalizzazioni: ad esempio, negli "Atti degli apostoli", 19.23 ss., si legge chiaramente che la predicazione di san Paolo ad Efeso fece temere alle maestranze impegnate nella costruzione del nuovo tempio di Diana che l'opera sarebbe stata lasciata s metà, con buona pace della loro occupazione...Di qui una rivolta artatamente basata su motivi religiosi.
7.- ORBENE, IL NOSTRO 'POTITUS' FU INVESTITO ANCH'RGLI DA SIFFATTI FENOMENI.
Anzi, per lui non v'era bisogno di presumere, dal 'nomen Christianum', attitudine e pratiche magiche. Esse - secondo la mentalità dell'epoca - contavano chiaramente. Già la sua fermezza in una fede appresa chissà come (certo, non in famiglia) e, per ciò, anche la inconsueta sua maturità non potettero non creare intorno a lui un'attenzione incuriosita dei vicini, dei paesani, di coloro con cui veniva a contatto. Era un 'prodigio'.
La convinzione e serenità, in un fanciullo, dovevano essere contagiose: il padre si converte ("...admiratus...dixit:'Vere Deus estcum filio meo...' "; anzi, si lascia scappare "est filius meus sapentior me inveniatur' "). Altro prodigio.
Una matrona ne fu suggestionata e guarì: dalla lebbra. Del corpo o dell'anima? Quelli che erano presenti si convertirono , esclamando sigificativamente - secondo il racconto della 'passio' - di aver incontrato che li redimeva "ex omni peccato", non che li sanava da ogni malattia. Meraviglia! Fanciullo, Potito si ritira a meditare su di un mont. Un'altra cosa 'meravigliosa' Anche che arrestò Potito fu suggestionato da tutto ciò: "Magna mirabilia vidimus in isto puero...".
Ed è significativo che l'inquisitore - come abbiamo visto, ed ora sottolineato ancora - tenesse ad affermare "Iste per maleficia fecit omnia".
'Nomen Christianum, mirabilia, maleficia' una cittadina e dintorni sconvolta. La sorte del povero 'Potitus' era segnata. Bisognava tacitare l'opinione pubblica che temeva i 'maleficia', impedire d'ora in poi 'mirabilia', e scoraggiare chi volesse abbracciare il 'nomen Christianum'. Un processo dall'esito scontato, stante anche la infervorata testardaggine del 'puer'. La condanna, esemplare.
8.- IL MIO SIN TROPPO LUNGO DISCORSO
si presta ad una obiezione fondamentale - ne sono perfettamente consapevole -.
Potito venne sottoposto ad un 'regolare' processo. l'accusa era più o meno esplicitamente quella di magia, e secondo le conoscenze e le vedute dell'epoca non appariva poi infondata, data la personalità del fanciullo. Questi si comportò in modo ribelle e caparbio. Incarcerazione e torture erano sopportate anche da altri. Conversioni e guarigioni possono essere interpretati in termini razionali. Quel che non è spiegabile un siffatti termini viene espunto come invenzione, abbellimento delle età più tarde. Allora: cosa rimane della santità di Potito? Un povero disgraziato e basta, come tanti, nei secoli, che la bestialità popolare ed il cinismo dei potenti hanno portato sui roghi. perché la tradizione lo avrebbe additato come santo? Sbaglia la tradizione?
Niente affatto. A ma pare che una ricostruzione per così dire 'laica' degli avvenimenti - del resto prospettata solo come alternativa - non inficia affatto la confermata credenza della santità del fanciullo, la quale, se non altro, risiederebbe nella incrollabile sua fede quand'anche vengano 'letto' in chiave non miracolosa taluni accadimenti della sua breve vita. E questo - oso credere - lo compresero subito i più pensosi suoi correligionari contemporanei ed i sapienti che ne raccolsero il ricordo, anche se le 'opportunità' dei vari tempi indussero via via a colorare diversamente, e più ingenuamente, quegli accadimenti.
9.- ULTIME ANNOTAZIONI.
La edificante, fugace esistenza terrena di San Potito deve illuminarci sulla fede. Ma può farci riflettere pure su cose terrene, di coscienza, dei nostri giorni.
Mi riallaccio a due risultanze abbastanza certe della pur non approfondita ricerca: la repressione in termini impeccabili di diritto (del diritto dell'epoca) dei cristiani nella metà del secondo secolo ed anche di quel Potito da Ascoli Satriano; il ruolo che ebbe l'opinione pubblica nei martirii.
Come può il diritto prestarsi ad aberrazioni quale il sacrificio di quel 'puer'? Sembra incredibile. Invece bisogna essere consci che il diritto, specie il diritto penale, è uno esempio. E, come il bisturi, può essere benefico se usato per estirpare un tumore, ma mutilante se il chirurgo ha individuato un tumore quando non c'era, ed assassino addirittura e viene usato come arma.
L'opinione pubblica. Disinforma, credulona, ma saccente, costituiva una potente molla che scatenava le efferatezze delle persecuzioni. "I cristiani ai leoni!". Ne fu vittima, secondo il mio modesto tentativo di ricostruzione, anche San Potito. Cose di millesettecento anni orsono, saremmo indotti a ritener. Mettiamoci dunque una pietra sopra. Ma possiamo noi scagliare la prima pietra?
Sono anni che, prima ancora di leggere le sentenze, anzi prima ancora che esse vengano emesse, gridiamo 'ai leoni!' Si tratti dell'assoluzione del 'mostro' di quel tale o talaltro paese, di un politico sospettato di voto di scambio, corruzione, abuso d'ufficio, o della condanna/scarcerazione di Priebke. E non importa qui se sarà accertato poi che l'uno o l'altro l'altro ancora è colpevole e meritevole della prigione. Un vizio antico, quello del giustizialismo. E' stato scritto proprio in questi giorni (Panebianco, su il Corriere della sera del 10 agosto 1996): "Poiché, nella coscienza nazionale, la giustizia (anzi, la Giustizia) conta e il diritto no, i tribunali dello Stato sono autorevoli se, e solo se, sono sostenuti, spalleggiati, da un tribunale-ombra, il Tribunale del Popolo. Il quale,ovviamente, se ne infischia della legge, esso vuole soltanto 'Giustizia'. Il che significa che l'azione di un procuratore o la sentenza di un giudice verranno sostenute e riverite dal tribunale del Popolo solo se in accordo con ciò che, di volta in volta, il Popolo giudica 'giusto'. (...). Se il Tribunale del Popolo disapprova, lo abbiamo visto, il tribunale dello Stato è fango, poltiglia, i suoi componenti sono marmaglia che può rischiare il linciaggio ed essere sequestrata per ore senza, per esempio, che il ministro dell'Interno se ne accorga (né venga chiamato a spiegare perché non se n'è accorto).
Attenti a rispettare il diritto. Allo stesso tempo, attenti a farne buon uso.
RIFERIMENTI DI BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
La 'Passio Sancti Potiti' (secondo il codice latino "Reginae Sueciae" 482 del IX sec., fgl. 16 verso - 26 verso) si può agevolmente leggere, con traduzione a fianco, in Mottola, San Potito martire di Ascoli Satriano (Foggia 1992)
[oppure cliccando quì: https://www.anspiascolisatriano.it/node/1222] e, come ultima appendice, in (Pichierri) San Potito Martire, patrono della Diocesi di Cerignola - Ascoli Satriano (Foggia 1993):
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2) Neapolitana moderationis,seu concessionis officii Sancti Potiti martyris pro monialibus ecclesie et monasterii Sancti Potiti civitatis
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