Dal libro di Domenico Mallardo: "S. Potito, un martire dell'Apulia', Napoli 1957 si legge:
LA PASSIO
Ci è giunta in due redazioni [B.H.L. Bibliotheca hagiographica antiquae et mediae Aetatis. 6908. 6911], identiche fra loro nella sostanza, divergenti solo nella forma. Della prima il testo ci è stato tramandato da parecchi codici, di cui ilpiù antico è il "codex Vat. Reginae Sueciae 482", della fine del secolo IX [A. Poncelet, Catalogus codicum hagiographicorum latinorum bibliothecae Vaticanae, Bruxellis 1910, p. 329, 3]; il testo della seconda lo troviamo in un unico codice, l' VIII. B. 3 della Biblioteca Nazionale di Napoli, del sec. XI [A. Poncelet, Catalogus codicum hagiograph. latin. bibliothecarum Neapolitanarum, in Analecta Bollandiana, XXX, (1911), p. 154]. La seconda redazione non è che una amplificazione retorica della prima.
Riassumo la "Passio", dalla redazione "A".
Potito è un fanciullo tredicenne, che vive nella città di Sardica in Tracia. Suo padre, Hylas, pagano, esige che Potito osservi la religione paterna; Potito, che è cristiano, rifiuta; il padre lo chiude in prigione. In un secondo colloquio, Hylas, pagano, avverte Potito che l'Imperatore Antonino ha comminato la morte per chi non sacrifichi agli dèi, ed egli non vuol perdere l'unico figlio: La prospettiva dei tormenti della morte non spaventa Potito. Hylas, finalmente vinto, cede e riconosce che il vero Dio è quello di suo figlio. Una nube rapisce Potito e lo trasporta in Epiro: qui un angelo gli appare e lo predispone ad una lotta col demonio. La lotta comincia: la statua del demonio cresce ino all'altezza i quindici cubiti, Potito lo scaccia, il demonio si muta in toro ruggente, Potito lo immobilizza, e il demonio viene liberato soltanto dopo di aver giurato che non lotterà più con lui; ma si impossesserà di Antonino e del preside Gelasio, perché gli facciano soffrire ogni sorta di torture. poi parte riconoscendo, tra le bestemmie, di essere stato vinto da un fanciullo.
Potito si recò nella città di Valeriana. Qui, Ciriaca, moglie del primo senatore Agatone, è ammalata di lebbra. Potito va a sedersi alla sua porta; si presenta un eunuco, il quale alla enumerazione dei miracoli che compie il Dio a cui serve Potito, lo invita a guarire la sua padrona. Potito è ammesso al cospetto di Ciriaca; soliti discorsi di chi vuol essere guarito con chi vuol convertire prima di guarire. Potito guarisce e converte, la matrona, poi parte. Il diavolo intanto, che ha invaso la figlia di Antonino, dichiara che solo Potito potrà scacciarlo. Antonino manda il preside Gelasio con cinquanta soldati a prenderlo. Lo trovano su un monte, ma Gelasio lo porta, mani legate, a Roma, al cospetto dell'imperatore e della figlia. Potito "exsufflat in faciem eius", le dà uno schiaffo, un esorcismo in piena regola, e il diavolo va via. Ma l'imperatore asserisce che sono gli dèi a guarire la fanciulla; ne nasce la solita polemica, con lunghi dialoghi, tra i due. Condotto alla presenza degli iddii di Antonino, li polverizza, e viene chiuso in carcere con pesante catena al collo. Appare un angelo a confortarlo, e i carnefici lo vedono passeggiare nella prigione con gli angeli. L'imperatore ordina che sia condotto all'anfiteatro, ma le fiere non lo toccano, e allora vien dato l'ordine che gli siano tagliuzzate tutte le membra. I carnefici, invece, riescono solo a tagliuzzare le proprie membra, e allora Antonino fa gettare Potito a friggere in olio bollente, e, poiché non riesce a nulla, lo fa infilare in un ferro arroventato. le preghiere di Potito ottengono che nel ferro si trovi infilzato Antonino; né viene liberato, se quando la figlia si lascia battezzare.
Ma, in narrazioni del genere, la potenza dei santi è proporzionata al trascinarsi, sino all'inverosimile, della vicenda. Antonino, ostinato, fa tagliare la lingua a Potito, e Potito con tutta la lingua tagliata continua ad esaltare il suo Dio, e avverte antonino che egli non morirà, se non gli verrà tagliato il capo, e tagliato dove vuole lui, Potito. L'ordine della decapitazione, finalmente, vien dato,ma la sentenza deve essere eseguita dove vuole il martire; non a Roma, come sarebbe naturale, bensì in Apulia.
Il carattere favoloso di questo racconto salta subito agli occhi. Le inverosimiglianze palesi, le stravaganze geografiche, le declamazioni enfatiche dei discorsi stucchevoli quanto prolissi, le solite lezioni di teologia e apologetica, il moltiplicarsi, senz'altra necessità che quella della scenografia, degli eventi soprannaturali, le guarigioni miracolose seguite dalle inseparabili conversioni, le statue degli dèi polverizzate, il moltiplicarsi delle varie specie di supplizi senza effetto, le assurdità della procedura giuridica, il ripetersi di temi tolti da passione leggendarie dell'Italia Meridionale, pongono la "Passio S. Potiti" tra quei racconti fittizi, appartenenti al genere epico, dai quali è già molto poter mettere al sicuro la personalità storica del santo. [nota: Il Mostardi, da parte sua, sostiene che nella "Passio Sancti Potiti" i dati storico-geografici, considerati e giudicati da certa critica come stravaganti ed irreperibili presso gli antichi scrittori, sono, invece, da ricercare con accurata pazienza. Basta consultare i classici e ben noti "Itinerari romani" per rendersi conto dell'esatta precisione dei dati nel determinare i luoghi della vita e del martirio di San Potito. Bisogna allora convenire, come attesta il Mostardi, che stravagante sia non la "Passio", ma certa critica fondata sull'ignoranza di elementi di storia e geografia [Mostardi, San Potito ragazzo martire, Venezia 1969, p.9]. Sarebbe più esatto dire, come fanno i Bollandisti, di non sapere, anziché velare di pseudocritica "la propria ignoranza" [Acta Sanctorum Ianuarii, p.753, n.6].
Esempi dei luoghi. La lingua tagliata, come a S. Eugenia, S. Mena, S. Isidoro, S. Cristina, S. Policronio, S.Terenziano. Il continuare a parlare, non ostante la lingua tagliata, come nelle passiones dei santi Romano, Ciriaco e Giuditta, Ferreolo e Ferruccio, Montano, Cristina, Isidoro. Il suggello messo alla porta del giudice o dell'imperatore, come nelle passiones dei santi Gliceria, teagene, Melezio, Teodoto, Vito. La nube che rapisce Potito e lo porta in Epiro, ricorda temi analoghi delle passiones dei santi Erasmo, Canione, Vito, trasportati miracolosamente da un luogo all'altro da spiriti celesti. si tratta ì, qui, di santi meridionali: S. Erasmo appartiene a Formia, S. Canione ad Atella in Campania e ad Acerenza in Lucania; S. Vito anche lui alla Lucania, regione confinante con quella a cui appartiene Potito, l'Apulia. La figlia dell' imperatore, guarita dal demonio, richiama la passio di S. Vito, e tutte e due richiamano gli Acta S. Marcelli, in cui il martire Ciriaco guarisce dal demonio la figlia dell'imperatore Diocleziano, Artemia.
Il viaggio del santo per guarire un principe o una principessa invasata ricorre nelle passiones di S. Vito, S. Trifone, S. Marcello, nelle vite di Maturino, di S. Naamazio. Altro tema assai trito, l'anfiteatro. Stranezze negli itinerari. Non si tratta solo di spostamenti prodigiosi da un luogo, lontano, ad un altro, come S. Vito dalla Sicilia alla Lucania, S. Canione dall'Africa ad Atella, S. Erasmo da Antiochia a Formia, Potito da Sardica è portato in Epiro, nella città, non identificata, di Valeriana. In Epiro lo manda a prendere l'imperatore Antonino, perché gli guarisca la figlia. Come abbia fatto Antonino a sapere dove fosse Potito, l'agiografo non si preoccupa di spiegare. Il demonio ha detto soltanto chela figlia dell'imperatore non guarirà, se non verrà giù dal monte Potito, nient'altro; e il preside Gelasio, mandata da Antonino a rintracciare il martire, si reca, dice la seconda redazione della passio, a Gargara. Gargara è una località della Troade, alle pendici meridionali del monte Ida; ed è anche, a quanto attesta Stefano Bizantino, una città dell'Epiro. deve trattarsi di questa, nella passio di S. Potito. E' nell'Epiro, dunque, che sarebbe venuto da Roma. A Roma viene pronunziata la sentenza capitale; ma Potito chiede all'imperatore che lasci scegliere a lui il luogo della esecuzione. L'imperatore acconsente e Potito viene condotto in Puglia, e qui giustiziato non lungi da "Sentianum", presso il fiume Calabio.
La Passio di S. Potito è strettamente imparentata con passiones di santi dell'Itala meridionale; ma una più stretta analogia ricorre tra la Passio di S. Potito e quella di S. Vito. Il padre di Potito si chiama Hylas, ed anche il padre di S. Vito si chiama Hylas; il padre di Potito vuol piegare il figlio tredicenne con le stesse arti e per gli stessi motivi per cui il padre di Vito vuol piegare il figlio settenne; Potito è chiamato a guarire, su indicazioni del demonio, la figlia dell'imperatore, alla stessa maniera che Vito è chiamato a guarire il figlio dell'imperatore dal demonio che l'ha invaso; tutti e due i martiri sono esposti alle fiere nell'anfiteatro; tutti e due muoiono presso un fiume: di tutti e due le anime son viste volare al cielo in forma di colomba. Reminiscenza della morte di S. Scolastica, dal racconto dei Dialoghi di S. Gregorio Magno.
Una data di composizione per la Passio S. Potiti, non è possibile fissarla. Elementi interni che consentano di esprimere un giudizio, mancano. Accozzata, com'è, con elementi di pura fantasia, non offre di sicuro che la personalità del martire, la data festiva e il dato topografico. Si potrà fissare solo il termine ante quem, ricorrendo alla tradizione manoscritta. dei codici che ci hanno conservata la passio, il più antico è della fine del sec. IX. è possibile, però, risalire a circa un secolo indietro. Nell'anno 822, infatti, nel monasterium Augiense (Reichenau) si conservava un codice contenete la Passio S. Potiti. In una notizia antica relativa a quel monastero [Becker, Catalogi bibliothecarum antiqui, Bonnae 1885, 6, 129; 10,9], si legge:
"Brevis librorum, qui sunt in Coenobio Sindleozes Anna, facta anno VIII Hludovici Imperatoris...et aliorum sanctorum vitae et passiones, quorum haec sunt nomina:...S. Potiti,...".
Un altro catalogo dello stesso monastero, redatto prima dell' 842, conferma la cosa: "Incipit brevis librorum quos ego reginbertus indignus monachus arque scriba in insula coenobi vocabulo Sindleozes Anna, sub dominatu waldonis, Heitonis, Erelebaldi, et Ruadhelmi abbatum, eorum permissu de meo gradu scripsi aut scribere feci. In nono libro continentur passiones et vitae sanctorum id est Potiti...". Chi pensa agli scambi culturali, nell'età carolingia, tra l'Italia e i cenobi d'oltralpe, non si meraviglierà di trovare ai primi del sec.IX, a Reichenau, una passio di un santo dell'Italia meridionale. Era identica a quella che ci è giunta? Non è possibile una risposta categorica; ma non è improbabile che non fosse diversa.
La Redazione B della Passio e il Codice Napoletano VIII.B.3
La redazione B della Passio S. Potiti non presenta che due elementi nuovi in confronto della redazione A.
Il primo è la datazione del martirio di S. Potito. Mentre A si limita a dire che S. Potito morì sotto l'imperatore Antonino, senza aggiumgere altro, B premette al racconto questo preambolo cronologico: "Regnante Romanorum quartodecimo imperatore Antonino, anno scilicet ab incarnatione Redemptoris centesimo et sexagesimo sexto, orta est quarta persecutio a Nerone per totum orbem christianorum". L'Antonino della A, in B è individuato in Marco Aurelio; e il martirio di S. Potito è assegnato alla persecuzione scoppiata nel 166.
Il Baronio [Baronius, Annal. ad ann. 154, 3] assegnò il martirio di S. Potito all'impero di Antonino Pio, e all'anno 154: non conobbe, evidentemente, la passio B.
Una seconda novità introdotta in B è d'indole topografica. Mentre A racconta che S. Potito da Sardica sua patria fu portato da una nube in Epiro, che si portò nella città di Valeriana, e che il preside Gelasio mandato dall'imperatore a cercare Potito, perché gli guarisse la figlia, sale su un monte, B racconta che S. Potito dalla sua terra natale 'convolat' in Epiro, 'ubi est Gargara civitas', secondo il testo edito della Passio (ma l'unico codice superstite ha: 'quae est Thracia civitas'); poi va nella città di Valeriana; da Valeriana si porta su un monte non lontano dalla città; finalmente il preside Gelasio mandato da Antonino, per trovarlo, sale a Gargara. Gargara è l'elemento nuovo di B; in tutto il resto A e B coincidono. Ora, mentre di Valeriana non si è in grado di dire nulla, della esistenza di una Gargara nell'Epiro ci assicura Stefano Bizantino [Stephan, Byzant.].
Una certa divergenza tra A e B, di cui non ci spieghiamo il motivo, sta nella patria del santo. A lo fa nativo di Sardica, o Serdica (l'odierna Sofia), città della Tracia, B lo dice genericamente 'orientalium partium civis, ex orientalibus parentibus oriundus'. Tranne che in alcune invenzioni di qualche parte del racconto e nelle amplificazioni oratorie dei discorsi messi in cocca del santo, A e B sostanzialmente coincidono; e B dipende strettamente da A, di cui non è che una parafrasi. Coincidono anche nella sola cosa importante, il luogo e il giorno del martirio. Come A è nata nell'Italia meridionale, e lo dimostrano le analogie con composizioni agiografiche dell'Italia meridionale, così anche B è un frutto di questa medesima terra. Il fatto che la passio B si trovi in un codice che contiene quattro passiones di agiografi napoletani dei sec. IX e X, e che a Napoli, sin dal sec. IV-V, era vivo il culto di S. Potito e fioriva un monastero intitolato a S. Potito, m'induce a pensare che essa sia di origine napoletana.
Della passio B ci è giunto un solo esemplare manoscritto, il cod. della Biblioteca Nazionale di Napoli VIII. B. 3, del sec. XI. In origine esso formava un unico volume con l'altro codice della medesima Biblioteca, segnato VIII. B. 4, e ne era la seconda parte, poiché VIII. B. 4 contiene le vite dei santi dal 30 novembre (S. Andrea) al 9 gennaio (S. Giuliano, inizio),mentre VIII.B. 3 contiene le vite dei santi dal 9 gennaio (S. Giuliano, continuazione) al 10 febbraio (S. Austroberta).
L' VIII. B. 3, si può dire che sia stato sempre il solo a contenere la passio B di S. Potito? Il problema non è senza importanza. I Bollandisti nel sare, nel 1643, la loro edizione della passio B di S. Potito, dicono di averne ricevuto il testo trascritto "e pervetusto codice monasterii S. Potiti", dal padre Beatillo. Il codice da cui copiava il padre Beatillo, era la stessa cosa che l'attuale cod. VIII, B, 3 della Nazionale di Napoli? Sembrerebbe una quistione facile a risolvere con una attenta collazione del testo bollandiano degli 'Acta Sanctorum' con il cod. VIII. B. 3; ma non è cos'. In primo luogo non siamo sicuri che la copia del padre Beatillo sia una trascrizione rigorosamente fedele del 'codex pervetustus' del monastero napoletano i S. Potito; in secondo luogo, non sappiamo se i Bollandisti abbiano conservat, senza nulla mutare, il testo del Beatillo; tanto più che essi dicono di averlo collazionato con l'Ufficio di S. Potito, del medesimo monastero, pubblicato nel 1533. Di fronte, dunque, a parecchie varianti formali, molte delle quali rappresentano, nella ediz. bollandiana, dei miglioramenti, in confronto del cod. VIII. B. 3 non ci si sentirebbe autorizzati a trarre la conclusione sicura che il cod. VIII. B. 3 sia diverso dal 'codex pervetustus' del monastero di S. Potito, da cui il Beatillo traeva la copia trasmessa ai Bollandisti. Ad una attenta collazione della edizione Bollandiana con l' VIII. B. 3 ho già proceduto.
Ma vi sono delle variabili che possono indurre ad accogliere la conclusione opposta. segnalo soltanto tre casi.
Nel primo, più che di variante si tratta della mancanza, nel testo bollandiana, di un brano che si legge invece in VIII. B. 3.
'Acta Sanctorum' (=codice del monastero di S. Potito):...omni solamine terreno destituto, quae hamana non praevalet imbecillitas, tuae gloriae maiestatis suffarcire dignetur potentia. Haec illo orante...
VIII.B.3: ...omni solamine paterno destituto, quod humana non praevalet imbecillitas, tuae gloriae maiestatis suffarcire dignetur potentia. Quoniam quidem tu, Deus, in sancto evangelio dicere dignatus es: "Beati qui esuriunt et sitiunt iustitiam, quoniam ipsi saturabuntur"; et infra: "Beati qui persecutionem patiuntur propter iustitiam, quia ipsorum est regnum caelorum". Haec illo orante... Si dirà che il Beatillo ha tagliato lui il brano che gli sembrava inutile? Ma, se fosse così, dovremmo incontrare nella edizione bollandiana molti altri tagli nei discorsi di quella passio.
Altro caso - Quando la passio narra che S. Potito va in Epirto, l'edizione bollandiana (III, 14) ha: a patria sua in Epirum, ubi est Gargara civitas, convolans, ibi Christum praedicabat,. Deinde...VIII.B.3, invece, ha: a patria sua haepyrum, quae est Thracia civitas, convolans, ibique Christum praedicans, deinde...
Ubi e Gargara si potrebbe, tuttavia, pensare che siano correzioni del Beatillo a quae est Thracia civitas, del codice, che per lui, dopo Hepirum, non avevano senso. Le correzioni gli sarebbero state suggerite dal fatto che egli più avanti leggeva che quando il preside Gelasio andò a cercare Potito, lo trovò a Gargara.
L'inciso quae est Thracia civitas non è tuttavia, a mio modo di vedere, un assurdo; è solo una frase spostata. Il testo invece di essere a patria sua Epirum, quae est Thracia civitas, convolans, come è ora nel' VIII. B. 3, doveva essere nel codice da cui VIII. B. 3. copiava: a patria sua, quae est Thracia civitas, in Epirum concolans. Le parole: quae est Thracia civitas, potrebbero anche essere state in origine una glossa a Sardica della passio A.
Terzo caso - Della persecuzione di Marco Aurelio, il testo bollandiano (I, 3) dice che essa: praecipue in Isauriae partibus ita excrevit, ut... VIII. B. 3, invece, ha: praecipue inisanie partibus ita excreverat, ut.... L'Isauriae è ufdsdfna correzione del Beatillo, che lavorava nella ricca biblioteca del suo monastero teatino dei SS. Apostoli, scrive: Habeo apud me Acta D. Potiti a me conflata ex tribus mmm, sss. Codicibus, totidemque antiquis Lectionariis [A.Caracciolo, De sacris Ecclesiae Neapolitanae monumentis (Neapoli, 1645), p.139. L'opera postuma fu composta prima del 1642], sebbene non dica dove fossero, e a quale età appartenessero, questi tre codici. Però aggiunge che mentre un Ufficio capuano aveva "in Asiae partibus", un codice, invece, "pro Asiae habet Isauriae". L'Isauriae, dunque, non è una invenzione del Beatillo. Si potrebbe anzi concludere che il "pervetustus codex" del monastero in S. Potito, da cui il Beatillo traeva la sua copia, fosse identico a quello che leggeva il Caracciolo, e che ad una copia di esso attingesse il Caracciolo. Il Caracciolo dice anche: "Acta Potiti apertissime clamat, patriam eius fuisse in Oriente. Vel, ut unus ex iis codd. innuit, in Thracia". Qui il Caracciolo mostra, sì, chiaramente di attingere alla passio B: "orientalium partium civis" "ex orientalibus parentibus oriundus"; ma mostra ancora più chiaramente di attingere non già dal codice da cui trascriveva il Beatillo, e in cui di Thracia non c'è traccia, ma dal cod. VIII. B. 3, o da una sua copia, poiché è nell' VIII. B. 3 che leggiamo "a patria sua, quae est Thracra civitas".
Esisteva, dunque, un esemplare della passio B con l'inciso "in Isauriae partibus" conosciuto dal Beatillo e dal Caracciolo, ma che non era l'attuale VIII. B. 3, e un altro esemplare con l'inciso "quae est Thracia civitas", che leggeva il Caracciolo, e che si legge ora in VIII. B. 3, ma che non era nell'esemplare del Beatillo. Due esemplari vi erano, dunque, diversi, della passio B: quello da cui trascriveva il Beatillo, appartenente al monastero di S. Potito, e l' VIII. B. 3.
Che cosa nasconde, intanto, l'incomprensibile "insanie partibus" dell' VIII. B. 3? Credo che sia nato da "in asie partibus" diventato, per dittografia "ininasie partibus" e per metatesi "inisanie partibus". Così si spiega che tanto l'Ufficio di s. Potito, pubblicato a Napoli nel 1533per conto della badessa del monastero [Officium sancti Potiti martyris, perpulchre ordinatum,iussu Marriae S.Felicis archiabbatissae eiusdem monasterii 1553 die 9 aprilis. L'esemplare visto da me è nel cod. IX. C. 33 della Nazionale di Napoli], quanto un Breviario capuano [con un'amplificazione del preambolo cronologico della passio B, mutato dalla Cronaca di Eusebio, 1,II (P.L. XXVII, 472) o da Orosio, VII, 15)] delle monache, benedettine anch'esse, di S. Giovanni di Capua, anteriore al 1630 [M. Monaco, Sanctuarium Capuanum, (Neapoli 1630), p. 446], avevano "in Asiae partibus". Esisteva, dunque, un codice con l'inciso "in Asiae partibus" da cui dipendono gli Uffici napoletano e capuano, e da cui dipende, per quanto con un errore dell'amanuense che trasformò "in Asiae partibus" in "inisanie partibus", l'attuale VIII. B. 3. Questo, dunque, non è l'unico codice che sia mai esistito della passio B: oltre ad esso ci furono il suo archetipo, e il 'pervetustus codex' del monastero di S. Potito, da cui copiava il Beatillo, della cui vetustà non possiamo, però, dir nulla di preciso.
Questa indagine non era senza importanza, perché essa va al di là di un semplice problema di tradizione manoscritta. L'attuale VIII. B. 3 alla fine del sec. XVII era a Troia, in Puglia (prov. di Foggia). Recano ancora, esso e l' VIII. B. 4, un ex libris con uno stemma vescovile e la scritta 'Aemilius Iacobus Cavallerius S. Troianae ecclesiae Episc.' Il Cavallerius, o de' Cavalieri, proveniva da Napoli e fu vesvovo di Troia dal 1694 al 1726 [Della congregazione dei PP. Pii Operai, fondata dal ven. Carlo Carafa, sacerdote napoletano. Cf. Ughelli, Italia sacra, I (1717), p. 1348]. Li torvò a Troia i due codici, o li portò con sé da Napoli?
Il Low [E.A. Loew, The Beneventan Script., (Oxford 1914), p. 77], dopo avere riferito che al de' Cavalieri appartennero i codici XI AA 3, VI AA 4, VI B 11, VI B 13, VI D 1, VI G 34, VIII B 3, VIII B 4, VIII B 5, VIII B 6, della Biblioteca Nazionale di Napoli, aggiunse essere almweno probabile che diversi di essi fossero stati scritti a Troia, ma non si pronunciò esplicitamente sull' VIII. B. 3 in particolare.
Il Gallo [A. Gallo, Le biblioteche della Campania, in Accademie e Biblioteche d'Italia, 4 (1930-31), p. 297 ss.] annoverò tra i codici usciti da 'scriptoria' napoletani l' VIII. B. 3 3 l' VIII. B. 4.
Il Siegmund [A. Siegmund, Die Ueberlieferung der griechischen christlichen Literatur in der lateinische Kirche, (München 1949), p. 263 e 304] ha scritto che l ' VIII. B. 4 proviene da San Bovino, ed elenca S. Bovino tra le biblioteche di Napoli. Tutto ciò a proposito degli 'Acta Febroniae' conservati in VIII. B.4.
Ora, Napoli non ha mai avuto una biblioteca di San Bovino; né è mai esistito un San Bovino. Sta, invece, che gli 'Acta Febroniae' si leggevano in un codice membranaceo, esistente sino alla metàdel secolo scorso nella cattedrale di Bovino, che è un paesedella Puglia, in provincia di Foggia. Questo codice di Bovino, ricordato dal Chioccarelli, nel 1643, e dal Parascandolo nel 1848 [B. Chioccarelli, Antistitum Neapol. Eccl. Catalogus, (Neap. 1643), p. 104; L. Parascandolo, Memorie stor. crit, dipl. dela chiesa di Napoli, II (Nap. 1848), p. 160. Cf. D. Mallardo, Storia antica della chiesa di Napoli, (Nap. 1942), p. 120 s.; Idem, Giovanni diacono napoletano, in Riv. di storia della Chiesa in Italia, II (1948), p. 324], è da identificare con l' VIII. B. 4? Se fosse così, bisognerebbe ammettere che anche l' VIII. B. 3, che con l' VIII. B. 4 formava un volume solo, fosse stato a Bovino. Ritengo improbabile la cosa. Per quale via il Siegmund sia giunto al attribuire il solo VIII. B. 4 a "San Bovinio", è cosa che rimane oscura.
Quel che importa osservare è che l'unico volume, di cui erano parti l' VIII. B. 4 e l' VIII. B. 3, conteneva quattro testi dovuti a scrittori napoletani: la passio S. Eustratii, di Guarimpoto; la passio S. Febroniae, di uno scrittore certamente napoletano anch'esso e, come Guarimpoto, dei tempi del vescovo Atanasio II (876-898); la vita S. Basilii del prete Orso, e la passio S. Anastasii del chierico Gregorio, tutti e due, Orso e Gregorio, dellòaprima metà del ces. X [per tutti e quattro i testi citati, vedi i prologhi. Per Guarimpoto, v. D. Mallardo, oo.cc. Orso e Gregorio erano contemporanei di Gregorius lociservator (939-955)]. Ciò mi conferma nel convincimento che l' VIII. B. 4 e l' VIII. B. 3 siano di origine napoletana. E di origine napoletana ritengo la passio B di S. Potito, poiché molto più che in Puglia, dove trovò la morte, e a Benevento che nel sec. IX ne accolse gli avanzi, il culto di S. Potito era solenne in Napoli, dove un antichissimo monastero a lui intitolato sorgeva quasi alla metà del decumanus summus della città.
GLI SCRITTORI
La letteratura su S. Potito si apre nel 1580, con uno scrittore sardo, Giov. Francesco Fara [Joannes Franc. Fara, De rebus Sardois, (Calari 1580), p. 72-73]. Nella prima metà sel sec. XCVI erano stati composti in onore di S. Potito alcuni inni dal dotto napoletano Antonio Sanfelice (1515-1570) [N. Toppi, Biblioteca Napoletana, (Napoli 1678), p. 31; C. Minieri Riccio,Memorie storiche degli scrittori nati nel regno di Napoli, (Napoli 1844), p. 316], che furono in parte inscritti nell'Ufficio pubblicato in Napoli nel 1533; e nello stesso secolo mise in versi la vita di S. Potito Alessandro Flaminio [la notizia la si legge nel cod. IX. C. 33 della Nazionale di Napoli: la ripetettero il Vipera, Catalogus Sanctorum quos Ecclesia Beneventana celebrat, (Neap. 1635), p.3 s., e il Caracciolo, o,c,, p.139], di Tricarico, città di cui S. Potito era, ed è Patrono.
La vita in versi del Flaminio è perduta, a che io sappia; gl'inni del Sanfelice si conservano [nel cod. IX. C. 33. Sono contenuti, in parte, nell'Ufficio del 1953 e più completi in ACTA ss., ian. t. I] e dipendono dalla passio B.
Sino al 1580 S. Potito non è stato conosciuto che dalla passio A, che lo faceva oriundo si Sardica, o dalla passio B che lo faceva oriundo della Tracia (e Sardica è nella Tracia), o un 2orientalium partium civis": " clasur Eois puer ortus oris" diranno gl'inni. La stessa cosa viene a dire, sebbene indirettamennte, la passio B, quando, nel parlare della persecuzione di cui fu vittima S. Potito rileva che essa infierì "praecipue in Asiae partibus".
Nel 1580 S. Potito diventa un sardo, "natione sardensi". La trovata, è naturale, è del sardo Giov. Franc. Fara. Vivo era in Sardegna, propriamente in diocesi di Cagliari, il culto di S. Potito: si comprende facilmente allora come, e i casi analoghi sono frequenti, il luogo dov'era particolarmente venerato divenne la sua patria. Il Baronio, che solo dalla Sardegna attinse le sue notizie su S. Potito, accreditò l'appartenenza del martire a quell'isola: non c'era bisogno di altro, perché l'origine sarda di S. Potito divenisse luogo comune. La ribadirono, nel 1598, Giovanni Arca, e, nel 1600, Dimas Serpi [Ioann. Arca, De Sanctis Sardiniae, (Calari 1598), pp. 54-57: D. Serpi, Chronica de los Santos de Saerdena, (Barcelona 1600), pp. 29-50]; la ripetettero l'uno dopo l'altro, come al solito, il Ferrari, il D'Engenio, il Vipera [C. D'Engenio Caracciolo, Napoli sacra, (Nap. 1624), p. 599; M. Vipera, o.c.]. Ma non l'accolse, nel 1598, Paolo Regio [P. Regio, Vita di S. Potito martire, (Vico, 1598), p. 5]; "nacque...nelle parti Orientali, la cui patria narrasi essere stata la città di Sardica".
A lungo , e con ricchezza di invenzioni, scrisse su S. Potito il frate Dimas Serpi. Potito è nativo di Cagliari; da Cagliari - e non si sa il perché - s'imbarca per Napoli; poi va a Valeriana, città, afferma senza batter ciglio il Serpi, del regno di Napoli. Il resto del racconto, sino alla morte di Potito, è mutuato dalla passio. Dopo la morte, gente di Sardegna venuta nel regno di Napoli, ne trasportano il corpo nell'isola, ma non lo danno a Cagliari, perché è una città idolatra; approdano bensì al "cabo de Pula", ivi lo seppelliscono ed edificano una chiesa in suo onore.
Invano il napoletano padre Antonio Caracciolo [A. Caracciolo, o. c., p. 139 s.] respinse Decisamente, con sagge osservazioni, l'origine sarda di S. Potito: ebbe, come spesso accade a chi in critica storica ragiona, scarsa fortuna. Per la stessa strada del Caracciolo si mise il capuano Michele Monaco [M. Monaco, o. c.,. p. 448], sulla base, come il Caracciolo, della passio; il risultato fu il medesimo.
Si arrivò persino a supporre che il 'Serdica' , o 'Sardica', patria di Potito nella passio A, fossero una corruzione paleografica di 'Sardinia'; ma già il Caracciolo osservava: "quod [= Sardinia] in nuyllo ego reperi codice" e aggiungeva che l' 'orientalium partium civis' della passio B dimostrava che nella passio A non si poteva trattare della Sardegna. Avrebbe potuto anche osservare che dalla sua patria la passio fa arrivare Potito in Epiro. Ora, quanto è naturale un passaggio da Sardica nell'Epiro, altrettanto è strano un passaggio dalla Sardegna in Epiro.
Il Rosweyd [Acta SS. Ianuarius, t. I (1643), p. 753; Propylaeum ad Acta SS. decembris (1940), p. 19], al contrario, pensò che dal fatto che gli Atti presentano Potito in Sardica, potesse esser derivata l' affermazione della origine sarda: "Acta habent Potitum constitutum in Sardica. An inde origo de Sardinia?". Il sospetto del Rosweyd era già balenato, nel 1598, alla mente del napoletano Paolo Regio, il quale suppose che "per errore di stampatori" si fosse scritto "Sardegna per Sardica patria di S. Potito" ed è stato poi ripresentato dal Lanzoni [F. Lanzoni, Le diocesi di?talia, (Faenza 1927), p. 268], per il quale S. Potito "fu assegnato alla Sardegna, perché nella passio si legge che il martire era 'constitutus in Sardica'. Si è confusa la città di Sard[ica] con l'isola Sard[inia]". E' una ipotesi assolutamente gratuita: nessun codice, infatti, della passio presenta l'abbreviazione 'Sard'.
Dopo la comparsa del primo volume degli Acta Sanctorum (1643), in cui il Commentarius praevius dà quanto di meglio si poteva allora, il Tillemont[Tillemont, Mémoires, tom. II, not. X (Paris, 1701), p. 629] non risparmiò il suo severo scetticismo ai testi agiografici di S. Potito.
Nella letteratura su S. Potito nessun posto spetterebbe ad Ascoli di Puglia, perché nessun lavoro, su questo tema, è stato pubblicato da ascolani [nota: attualmente ci sono i lavori di F. Capriglione: La Patria di origine del martire Potito, e di A. Mottola: S. Potito, martire di Ascoli Satriano]. Una tradizione ascolana su S. Potito cominciò a circolare nel sec.XVI. Nel cod. miscellaneo della Bibl. Nazionale di Napoli IX. C. 33 (sec. XVI-XVii) è riportata, in due pagine e mezzo, una 'Vita de Sancto Potito Sardo martyre', che verso la fine ha: "Milites itaque Potitum apud Asculium in Apulia capite truncant, cuius corpus, etc.". In fondo alla 'Vita', lo stesso codice c'informa che essa è stata tratta "ex vita M.S. apud eccles. Tricaricensem...ex lib. de S. S. Sardiniae Joannis Mariae Arcae, etc.". Tricarico, in Lucania, non solo è in una regione confinante con la Puglia, ov'è Ascoli; ma si vantava nel sec. XVI di possedere il corpo di S. Potito, che essa, come Ascoli, venerava come Patrono principale. La tradizione ascolana accolta nell'ufficiatura propria di S. Potito, concessa con Decreto della S. Congregazione dei Riti del 16 novembre 1885, su richiesta del vescovo di Ascoli Antonio Sena, venne ribadita da uno studioso locale morto circa una trentina di anni fa, Pasquale Rosario. Le sue conclusioni, lasciate inedite, non occupano che poche pagine dattiloscritte [Le ho avute da Sua Eccellenza Rev.ma Mons. Raffaello Della Nocche, Vescovo di Tricarico, a cui le mandarono due Ecc. mi Vescovi di Ascoli. (Nota: ora questi dattiloscritti sono stati stampati a cura del prof. F. Capriglione)]. S. Potito sarebbe vissuto nel secondo secolo; sarebbe stato condotto, per compiere il sacrificio dell'ariete nero, al tempio di Podalirio, che sorgeva su una collinetta non lontana da Ascoli. A compiere quel rito idolatrico Potito "si oppose e subì in quel luogo stesso il martirio". Questa ricostruzione poggia su basi di pura fantasia, il Rosario credette di poter ricavare che Potito apparteneva alla 'gens Publilia'; che "aveva una sorella a nome Eria Teodora, maritata nella famiglia Elia". "Un titolo marmoreo scopertto a Cornito, vicino ad Ascoli, parla - dice il Rosario - della famiglia Elia e ci conduce alla scoperta del paese nativo del martire".
Dopo il Lanzoni, e dopo il breve commento dei Bollandisti all'annuario del Martirologio Romano, ebbi occasione di scrivere anch'io alcune pagine su S. Potitro [D. Mallardo, Il calendario marmoreo fi Napoli, (Roma 1947), p. 89-92].
A un esame particolare, tuttavia, va sottoposto quanto hanno scritto il Rosario e il Lanzoni. La ricostruzione dell'ascolano Pasquale >Rosario poggia in parte sulla sua fantasia, in parte su un'iscrizione romana del III secolo. Su un sarcofago romano, di cui non è rimasta che la nuda tabula inscriptionis [CIL. VI. 1537, addit. 3142. L'ha riportata E. Diehl, Inscriptiones latinae christianae veteres, I (1925), 129], era rappresentata, a sinistra, in un clipeo sorretto da due genii, una donna con un volume; sotto l'iscrizione, un "pastor com grege".
Lo Henzen ritenne del sec. III, circa, le lettere della iscrizione, e il De Rossi la giudicò cristiana. Si conserva ora nella Galleria lapidaria del Museo Vaticano (Parentes, III): ne diamo la riproduzione fotografica (qui in fondo) e il testo:
CRUDELIS INPIA MA|
TER CARIS SUIS DULCIS|
SIMIS VET.PUBLILIO POTITO|
C(LARISSIMO)V(IRO),QUI VIXIT AN(NOS) N(UMERO) XIII DI(ES)|
LV, ET AERIAE AELIAE THEODO|
RE H(ONESTAE)|F(EMINAE),QUE VIXIT AN(NOS) N(UMERO)XXVII|
DI(ES)XLI,INFELICISSIMA MATER|
QUE VIDIT FUNUS SUUM|
CRUDELISSIMUM,QUE SI DEUM|
PROPITIUM HABUISSE, HOC|
DEBUERA AB EOS PATI.
Il 'Vet.' della linea 3, nella Prosopographia Imperii Romani [De Rohden-Dessau, Pros.Imp.Rom., pars. III, (Berolini 1898), p. 92, num.678, p. 417] è dato come abbreviazione di 'Veturius', negli Indices del Corpus [CIL. VI, pars VI, fasxc. I (1926), p. 156], invece, come abbreviazione di 'Vetius'.
Tra il Publilio Potito della iscrizione e il San Potito quale ce lo presenta la passio, non c'è proprio niente di comune all'infuori dell'età: per tutto il resto, nulla assolutamente, nella iscrizione, che convenga ad un martire. La sola coincidenza dell'età non può bastare per l'identificazione, e, d'altra parte, la tenera età dei martiri ricorre in tanti altri resti agiografici, che è legittimo pensare che nella passio favolosa di San Potito essa è semplicemente un luogo comune. Le martiri Agnese, Eualia, Seconda, subiscono il martirio in età di dodici anni. Non mi fermo sui martiri, dei quali, benché si sappia che fossero in tenera età non ci sono stati tramandati gli anni precisi della loro vita, come, ad es., il 'puer' Cirillo di Cesarea di Cappadocia [B.H.L. 2068]; i 'gemini pueri cum matre conpassi' a Lambesa nel 258, di cui è parola nella Passio SS. Mariani et Jacobi [P.Franchi de' Cavalieri, La Passio SS. Mariani et Iacobi, c. 11, in Studi e Testi, 3 (Roma 1900), p. 60], le 'puellae' Tertulla ed Antonia, della stessa passio [ibidem, p. 59]; ricordo solo San Vito [Acta SS., Junius, t. III, (3° ed.), p. 502, num. 10], il quale è un martire di sette anni, che diventa di dodici nel Bellovacense e nella Legenda aurea, e S. Pancrazio che ne aveva quattordici [Ibidem, Maius, tom. III, (3° ed.), p. 21].
Alla prima lettura di quanto aveva scritto il Rosario, mi parve meritevole di attenzione la sua affermazione che la iscrizione riportata "ci conduce alla scoperta del paese nativo del martire". "Un titolo marmoreo,scrive il Rosario, scoperto nella vicina Cornito, ed ora sotto l'arco dell'orologio municipale di Ascoli Satriano, parla appunto della famiglia 'Eria', cui erasi disposata la sorella di S. Potito" "sua sorella Elia Teodora, maritata nell'altra nobile famiglia 'Elia' " [sic: forse qui avrà scritto 'Eria']. A me non è mai riuscito di recarmi ad Ascoli, per controllare 'de visu' quel che ha scritto il Rosario, e che era fatto per destar subito grave sospetto sulla sua esattezza. Pregasi dunque l'Ecc.mo Mons. Delle Nocche, Vescovo dio Tricarico, che ha voluto, lui, questo lavoro su S. Potito, perché ne chiedesse informazione accurata all'Ecc.mo Vescovo di Ascoli. Ne ebbe due risposte; nella prima, che "la lapide murata sotto l'orologio esiste realmente, ma è attualmente illeggibile, a causa degli strati di calce accumulati durante i vari imbiancamenti del paese"; nella seconda che "la lapide sotto l'arco dell'orologio reca la seguente iscrizione: J.O.M.|CAECILIUS.STATIUS.CAIUS.FIRMUS|Q.CESTUS.VIAM.HERCULIAM.AD|PRISTINAM.FACIEM, RESTITUIT.
In essa non si fa menzione alcuna di S. Potito; ed è questa la ragione, per cui il Dott. Pasquale Rosario non ne ha fatto alcun cenno in quegli appunti, mentre la riporta integralmente nella sua storia di Ascoli Satriano".
Non mi è stato possibile vedere codesta storia di Ascoli Satriano; ma non ci voleva molto per ritenere sospetto il testo di questa lapide, anche a prescindere dalle tre sigle iniziali. La ritengo una manipolazione di CIL, IX, 6059: Imp. Caes. M. Aurel. Valer. Maxentius P. f. invictus Aug. Pontif. Max. trib. potestate cos. II viam Herculiam ad pristinam faciem restituit, e di CIL. IX, 6066: Imp. Caes. M. Aur. Val. Maxentius P. f. invictus Aug. P. M. trib. pot. cos. II p. p. procos. viam Herculiam ad pristinam faciem, restituit.
Da quale fonte il Rosario abbia attinto che proprio sul Carapelle sorgesse un tempio sacro a Podalirio [per ilculto di Podalirio nell'Italia meridionale, v. Strabone, 14, p. 654 c; TImeo, fr. 15 (Tzetz. a Lycophr. Schol. 1047). Cfr. L. Deubner, De incubatione, (Lipsiae 1900), p. 19, 27], che a questo tempio venne condotto Potito pel sacrificio del'ariete nero, che vi si sia opposto e perciò abbia subito il martirio, è inutile chiederselo. [Il Rosario parla di un tempio di Podalirio, che sarebbe sorto su una "collinetta, ai piedi della quale gorgoglia una Salsa di fanghi bituminosi, che corrisponderebbe alla località nella quale S. Potito subì il martirio" "un luogo detto Banus ossia Bagno". A prescindere dalla assurda derivazione dell'italiano "bagno" dal latino "banus", la frase della passio "super flumen qui dicitur Banus" ricorre solo in qualche testo edito, mai nei codici, ed è una corruzione di (super flumen qui dicitur) Calabius. Il colle, poi, ai piedi del quale sorgeva il sacello di Podalirio, il colle Drion, era ben lontano da Ascoli; era presso il Gargano, a una ventina di Km. dal mare: Strabone, VI, 284; Roscher, Ausfuhrl. Lexicon der griech. und. rom. Mythologie, (1906) s. v.,p. 2589. Che il fiume "Altainos", nelle cui acque Licofrone dice che si bagnano i fedeli di Podalirio, sia . da identificare, come fa il Rosario, col Calaggio-Carapelle, è cosa che avrebbe bisogno di essere dimostrata]. Tutto questo, secondo lui, sarebbe avvenuto al secondo secolo; ma il Rosario non riflette che la iscrizione che egli crede appartenga al martire S. Potito, è del III secolo. Tale fu, per la paleografia, l'avviso dello Henzen. E al terzo secolo, non certo al secondo, può appartenere la scena riprodotta sulla fronte del sarcofago.
Il Lanzoni non si è accorto di aver sostenuto, contemporaneamente, due tesi opposte [F. Lanzoni, o. c., I, p. 268; II, pp. 659-660. 1120]. Da una parte nega che Potito possa essere attribuito all'Apulia "perché nella sua Passione si legge che fu decollato presso il fiume Calabrum nella colonia Apulensis. Ma questa colonia si trovava nella Dacia, non nell'Apulia" e scrive che "fu creduto sardo, mentre egli senza dubbio appartenne a Sardica"; dall'altra nega anche che possa essere assegnato alla Sardegna, perché ciò è avvenuto, secondo lui, per il fatto che "nella stessa passione si legge che il martire era constitutus in Sardica, e si è confusa la città di Sard[ica] con l'isola Sard[inia]". Ciò tuttavia non gl'impedisce di aggiungere, negli Indici, al nome di Potito la rubrica topografica 'Sardegna'.
Ma a tutta la tradizione manoscritta è ognota la forma 'Calabrum', come ignota è la 'colonia Apulensis' [se l'è immaginata il Lanzoni. Par Apulum e colonia Aurelia Apulensis, o colonia nova Apulensis, v. Tomaschek in Pauly-W., Real-Encyklop., vol. II (1895), p. 535; E. de Ruggiero, Diz. epigr., II (1910), p. 1455]. La frase 'colonia Apulensis', anzi, è sconosciuta a tutti i testi editi della passio S. Potiti. 'Calabius' è nel cod. Vat. Reg. lat. 482, fol. 26 s; 'Calabium' nel cod. Bibl. Naz. Napol. VIII. B.6, fol. 199 v; 'Calabrius' nel cod. Arch. S. Petr. A 2, fol. XCII v; fluminis 'Calabritici', nel cod. Bibl. Naz. Napol. VIII. B. 3, dove però il '-ci' finale è un rifacimento, e la 'r' è un'aggiunta messa nell'interlinea. L'Ufficio del 1533 lo storpiò in 'Calabiarici'.
L'opinione del Lanzoni, di una derivazione di Sard[inia] da Srd[ica] è tolta di peso dal Rosweyd [se l'è immaginata il Lanzoni. Per Apulum e colonia Aurelia Apulensis, o colonia nova Apulensis, v. Tomaschek in Pauy-W., Real-Encyklop., vol. II (1895), p. 535; E. De Ruggiero, Diz. epigr., II (1910), p. 1455]; ma nessun codice presenta l'abbreviazione Sard. e tutti hanno Sardica, o Serdica, o Sertica per esteso: l'ipotesi è assolutamente gratuita. La nazionalità sarda di S. Potito spunta soltanto alla fine del 1500, e trae la sua origine dal culto tributato nell'isola al santo.
RICOSTRUZIONE STORICA
Di S. Potito, nonostante il carattere favoloso della passio, e le soprastrutture pià o meno ingenue o interessate degli scrittori, due cose si possono ritenere, la storicità della sua persona e il luogo del martirio. A questo risultato ci conducono quelle che il Delehaye [H. Delehaye, Cinq lesons sur la méthode hagiographique, (Bruxelles 1934), pp. 7, 13: R. Aigrain, L'hagiographie: ses sources, ses méthodes, son histoire, (Paris 1953), p. 247 s.] chiamò le due coordinate agiografiche, e tutta la storia postuma del culto. Delle coordinate, quella d'indole topografica è così circostanziata, e si riferisce a località così poco conosciute, che non possono essere un'invenzione dell'agiografo.
Il cod. Vat. Reg. Suec. lat. 482 ha:
perduxerunt eum in locum quod apellatur Apulia, ubi dicitur Sentianum et Iunianum; decollatus autem est sanctus Potitus super flumen qui dicitur Calabius.
Il cod. Arch. S. Petr. Vatic. A. 2:
perduxerunt eum in locum qui vocatur Apulia, ubi dicitur inter Sententianum et Iunianum. Decollatus est autem sanctus Potitus super flumen qui dicitur Calabius.
Il cod. VIII. B. 6 della Bibl. Naz. Napol.:
duxerunt eum in provincia que appellatur Apulea, quod est inter Sentianum et Iunianum; et decollatus est canctus Potitus super flumen qui dicitur Calabium.
Il cod. VIII. B. 3 della Bibl. Naz. Napol. (=Passio B):
duxerunt ad locum quemdam inter Sentianum et Iunianum, qui vocatur Iulia, super ripam unius fluminis Calabritici, et ibi eum gladio ferierunt.
Il dato topografico chiaro, dell' Apulia non è il solo. Da solo avrebbe forse potuto avere un valore relativo. C'è ne sono altri due, il Calabius e Sentianum; di un terzo, purtroppo, Iunianum, la forma corrotta in cui ci è giunto c'impedisce di trarre il profitto che si potrebbe.
Il Calabius è l'odierno Calaggio, che comincia tra Aquilonia e Trivicum. E0' un torrente che nella continuazione del suo corso prende anche il nome Carapelle, e sbocca nel golfo di Manfredonia, non lungi dall'antica Anxanum.
Sentianum è una mansio della via Herculia [par la via Herculia e per Sentianum, cfr. T. Mommsen. Sulla topografia degli Irpini, in Bullett. dell'Instituto di corrispondenza archeologica, 1848, pp. 12-13; Idem in C.I.L., IX (1883), nummm. 6059 e 60 66, pp. 599, 637; G. Grasso, Studi di storia antica e di topografia storica, vol. I (Ariano 1893), p. 39 ss.; E.De Ruggiero, Dizionario epigrafico, vol. III (Roma 1902) s. v.; Trivicum, vol. 20 (1939),p. 523-524; H. Nissen, Italische Landeskunde, II, 2 p. 820; P. Fraccaro, Italia Romana (Grande Atlante Geografico), Istit. De Agostini (IV ed., Novara 1938)] Questa strada, che deve il suo nome all'imperatore Massimiano Erculeo, è una delle 'viae publicae' degli Irpini; conduceva da Equo Tutico a Venosa, poi, piegava verso il sud, a Potenza, entrando così nei Lucani, per proseguire poi per Grumento e congiungersi con la strada maestra per Reggio. L'itinerario di Antonino [O. Cuntz, Itinerarium Antonini Augusti et Burdig., 112, (Teubner 1929), p. 16] che, insieme con le pietre miliari, ci dà modo di ricostruirne il tracciatyo, indica da Equo Tutico a Venosa due percorsi, l'uno più corto, di 64 Km., per le mansiones di "ad Matrem magnum" e "in Honoratianum"; l'altro, poco più lungo, di 69 Km., per le mansiones di Sententianum e Baleianum. Sul tracciato della Herculia, prima che entrasse nei Lucani, non tutti i topografi sono d'accordo: non è nostro compito affrontare il problema. Sentianum distava 33 miglia da Equo e 36 da Venosa; il posto preciso su cui sorgeva non è possibile fissarlo (forse le vicinanze di Aquilonia (Lacedonia), o Bisaccia, o Sauri); comunque non lontano dal Calaggio, poiché la località del martirio di S. Potito, la riva del Calaggio, è indicata come posta tra Sentianum e Iunianum (probabilmente corruzione di Baleianum dell'Itinerario di Antonino).
Sentianum è ricordata in un altro testo agiografico, la passio dei Dodice Fratelli [Acta SS., Septemb. I, p. 135 s.]. provenienti dall'Africa e menati su da Reggio, furono, natta la passio, i primi quattro, Aronzio, Onorato, Fortunato e Sabiniano giustiziati a Potenza; Settimino, Gennaro e Felice a Venosa; Vitale, Satore e Reposito a Velianum (corruzione di Baleianum); Donato e Felice a Sentianum. L'autore della passio scagliona le tappe del viaggio dei Dodici Fratelli precisamente sul tracciato della Herculia.
Quando l'agiografo della passio S. Potiti colloca il martirio del suo eroe il località posta in vicinanza di due povere e sperdute mansiones "che forse non erano altro che taverne isolate", anche se è uno scrittore strettamente locale, che non poteva non conoscere bene i modesti borghi di casa sua, mi sembra difficile che lavori ex ingenio. A servizio di ben altro si mette la pura inventiva.
Sull'uso che di Sentianum ha fatto l'autore della passio dei Dodici Fratelli, non posso fare qui un esame particolare. Né posso farlo su quello che ha scritto il Lanzoni, del quale alcune cose sono discutibili, ed altre errate, come il porre Sentianum presso Aeca in Apulia, mentre invece non ne è lontana meno di 40 chilometri.
Costante è anche nella passio S. Potiti la coordinata cronologica.
Se la lezione del martirologio geronimiano [H. Delehaye, Commentar. martyrol. Hieronymian., in Acta SS., Novemb., t. II. (1931), al XVII kal. iul.] in due codici lucchesi e nel codice Vallombrosano, ora Laurenziano 331, fosse genuina, al 15 giugno sarebbe in esso registrato S.Potito. Ma il Potiti di quei tre codici è correzione del Protiti del codice Wissenburgense, q questo, Protiti è, a sua volta, corruzione di Proti, il martire di Aquileia festeggiato il 15 giugno.
Al 13 gennaio assegnano S. Potito i martirologi e la passio. La passio del cod. Reg. Sueciae (fine del sec. IX) ha: martyrizatus est sanctus Potitus sub die XVIII kal. febr.; quella del cod. Archiv. S. Petri: martyrizatus est sanctus Potitus idibus ianuarii: la data è sempre la stessa negli altri codici. Dei testi martirologici, il calendario marmoreo napoletano [D. Mallardo, Il calendario marmoreo di Napoli, (Roma 1947), p. 21, 89-92], della metà circa del sec- IX, al 13 gennaio ha: Natale sancti Potiti; alla stessa data lo segna il Gualdense, beneventano, del sec. XII [E. D. Petrella, Il martirologio Gualdense, in Samnium, XIX (1941), p. 129]. Di tre calendari capuani [M. Monaco, op. cit., p. 391, 424, 446], dei secc. XII-Xiii, il più antico ha al 12 gennaio: passio erit sancti Potiti; si è voluta rispettare l'ottava dell'Epifania; gli altri due lo hanno al 13. Il calendario Tutiniano di Napoli [A.S. Mazochius, De sanctor. Neapol. Eccles. episcopor. cultu, (Neap. 1753), p. 312], degli ultimi anni del XII o dei primi del XIII, ha al 13 gennaio: Octava Epiphania domini et sancti potiti martyris.
Se non è lecito dubitare né della storicità di S. Potito, né della sua appartenenza all'Apulia, c'è qualche modo per spiegare come la passio ne abbia fatto un orientale, nativo di Sardica? Si sa bene che gli agiografi spesso lavorano a capriccio con elementi di pura invenzione e che si compiacciono di far venire i loro eroi da paesi lontani. per fermarmi solo ad alcuni casi di santi dell'Italia Meridionale collegati con l'Oriente, ricordo che vengono da Antiochia Erasmo di Formia, Ippolito (o Ipolisto) e Modestino di Avellino; dalla Dalmazia Giuliano di Sora; dall'Epiro Panfilo di Sulmona; Massimo e Giuliana di Cuma da Nicomedia; Paterno di Fondi e Leucio di Brindisi dall'Egitto. Ma per S. Potito c'è un dato singolare, e indagare pere scoprire un eventuale elemento concreto a base degli errori dei testi agiografici non è forse fatica sprecata. Della mia fatica espongo il risultato.
Il titolo 6016 del CIL. IX, si riferisce ad un cippo vario, e precisamente al 72° miliario della via Traiana, che da Benevento, per Aeca, Herdonia, Canosa, menava a Brindisi. Questo cippo ora è ad Ascoli, e ad Ascoli lo vide già, nel sec. XV, Iohannes Bononius [C.I.L. IX, 6016 e p. XXXI - E' un cippo, però, trasportato]. Intanto, nel codice della Biblioteca civica di Siena, III.C. 27°, che dipende da collectanea di Marcello Cervini (+ 1555), alla copia di questo titolo, esistente anche allora in Ascoli,"Serticae praescribitur", dice l'apparato del CIL Ascoli, dunque, si chiamava anche Sertica.
Ancora. Nell'apparato che precede CIL. IX. 668, si legge:"Asculi Apuliae (hoc est Trivici, quod falso Serlicam vulgus existimat)". Questa nota topografica è di Ioannes Natalius Metellus (ms. Vatic. 6039, fol. 364g) a cui trasmise l'iscrizione Simone Vallamberto, tra il 1538 e il 1546. Dalla nota riportata si ricava che Serlica (ritengo che si tratti di un errore di trascrizione che ha dato Serlica pr Sertica) è un toponimo di una località della Apulia, identificato a torto con Trivicum.
A. Caracciolo nei primi decenni del 1600 afferma che gli abitanti di Ascoli ritenevano che la Serdica della passio fosse una località dell'agro ascolano. Hanno, dunque, gli ascolani imposto il nome di Serdica alla loro terra, per suggestione della passio? Non è impossibile. Ma il toponimo di Sertica per designare Ascoli, lo adopera già, un secolo e mezzo prima del Caracciolo, il Bononius, che è un Laudensis, non un Ascolano.
E' assurdo supporre che l'autore della passio del sec. IX, abbia trovato, nel testo più antico che egli ampliava, il toponimo Serdica, e che, non conoscendo egli se non la celebre Serdica di Tracia, abbia identificato con questa la Serdica della passio, ed abbia, per conseguenza, inventato poi il volo di S. Potito dalla Tracia nell'Epiro, dove, non si capisce come, lo manda da Roma a cercare l'imperatore Antonino?
TRASLAZIONI E CULTO
Uno dei fascicoli mss. del cod. miscell. IX. C. 33 della Nazionale di Napoli, contiene di mano del sec. XVI-XVII una passio S. Potiti corrispondente nella sostanza alla redazione A. Essa termina: Fuit autem sanctus Potitus, ut dictum est, annorum tresdecim. Martirizatus autem die Idibus Ianuarii. a breve spazio, segue, di altra mano ma non posteriore agl'inizi del XVII,una interessante notizia inedita, che deve essere stata riportata dal codice membranaceo più antico, da cui era stata copiata la passio. La notizia fu prima trascritta in una forma, poi nella prima riga corretta in un'altra forma. La sostanza, tuttavia, rimane identica.
Do la notizia, con la prima riga nelle due forme:
1. Post multum itaque tempus Dompn Siccard' eximi' Princeps (=Dompnus Siccardus eximius).
2. Post multa itaque annorum curricula temporibus Dompni Siccardieximii Princepis,
Beneventanae sedis electus, venerabile eius corpus exinde auferens, Beneventanum detulit et in ecclesia sanctae Dei genitricis Mariae
honorifice loicavit. Ad laudem et gloriam Domini nostri Iusu Christi. Qui vivit et regnat cun Deo Patre et Spiritu Sancto. Per omnia saecula
saeculorum. Amen. Soli Deo Honor et gloria.
Sotto il ducato dunque di Sicardo, 818-839, il corpo di S. Potito fu trasportato dal luogo del martirio, exinde auferens, a Benevento. Sicardo, associato al padre Sicone nell'818, rimasto solo Principe nell'832, ha lasciato il suo nome legato a molte traslazioni di corpi di santi. Non gli mancavano esempi tra gli antenati. Arechi (759-787) aveva trasportato i Santi Dodici Fratelli dai diversi luoghi di sepoltura a Benevento [B.H.L. 5936-5938 b.], e S, Mercurio da Aeclanum a Benevento [B.H.L. 5936-5938]. Sicone bell'831 trasportò da Napoli a Benevento S. Gennaro [Poetae latini aevi Carolingi, t. III, p. 651; Pertz, Scriptores (Monumenta Germaniae Historica), t. III, p. 497, 11. 49-51; ibid., t. VII, p. 595]. Dell'avidità di Sicardo di possedere corpi santi fa testimonianza Giovanni diacono napoletano [B.H.L. 4135], che fa dire al vescovo di Napoli Stefano III (898-906) "Sicardus princeps Langobardorum, post innumera mala, quibus urbes nostratium afflixit, etiam ad hoc prorupit, ut sepulcra effoderet et sanctorum ex eis corpora sublevaret". Sotto Sicardo, furono trasportati a Benevento i corpi di S. Marciano vescovo di Frigento [Analecta Bollandiana, LI (1933), p. 344, dal codice II della Bibl. Capitolare di Benevento, sec. XI/XII], di S. Felicita e figli da Alife [B.H.L., 2854. Si legge anche nel cod. II della Capitl. di Benevento], di Deodato da Nola [B.H.L., 2135-2136],.
A queste traslazioni, come pure a quella di S. Trofimena [B.H.L., 8318], è legato il nome di un vescovo, eletto, di Benevento, Orso. Di lui ci dà notizia il Chronicon manasterii S. Sophiae, ad ann. 831 [Pertz, Scriptores, t. III, p. 173]: "Ursus eligitur an. 8. m.7" e il Chronicon Salernitanum [ibidem, p. 497], a propositodella guerra,tra,Benevento e Napoli nell'831 "Quam (Neapolim) et obsedendo aliquanto tempore viriliter cum Beneventanorum exercirus constrinxisset, tunc Ursus, electus praedictus, Sico iam fatus princeps deprecatus est ut etiam amplius malumnon proveniret, neque sanguis affunderetur christianorum. Ad haec Sico Langobardorum princeps admonicionem electi praedicti audins...".
Nella passio S. Felicitatis leggiamo: "Cumque post multa annorumcurricula...locus ille in quo Sancti quiescebant viluisset et absque honore debito tam praecipua sanctorum corpora essent, ex iussu eximii et vere catholici Langobardorum Principis Sicardi, Ursus Benevntanae sedis electus, eadem sanctorum corpora elevans ab Aliphis Beneventum magmo cum honore perduxit".
Nella vita et obitus B. Marciani:" Cuius (Marciani) fama ataque virtute comperta, venerabilis Ursus Beneventanae sedis electus non est passus eum ibi requiescere...Sicut de multis sanctorum corporibus fecerat, quos de diversis partibus congregaverat, et in ecclesia sanctae Dei genitricis digno cum honore collocaverat, ita de corpore beatissimi Marciani... Frequentum perrexit ecclesiamque in qua sanctissimum corpus beati Marciani episcopi quiescebat... ad arcam eius accedens...illam aperiens sacratissimum corpus b.Marciani exinde auferens Beneventum perduxit...et in ecclesia collocavit".
Il confronto con i testi ora citati m'induce a correggere, nella notizia citata, del cod. IX. C. 33, urbis Beneventanae sedis electus in Ursus Beneventanae sedis electus. La forma Sicardus Princeps urbis Beneventanae sedis electus, è inaccettabile, sia pure per indicare Sicone associato al padre. Non sarebbe stato chiamato Princeps. E, d'altra parte, la formula urbis Beneventanae sedis, per indicare la città di Benevento o il ducato beneventano, è tanto assurda quanto inconsueta, mentre, al contrario, solenne e ovvia è la parola sedes per indicare la cattedra, la chiesa episcopale.
La notizia del cod. IX. C. 33 deve essere stata riportata da un codice più antico, in cui, come in altri casi consimili, con la notizia della traslazione, si concludeva la passio del Santo.
Nel 1119 il corpo di S. Potito era ancora venerato a Benevento. In quell'anno, narra Falcone Beneventano [Muratori, R.I.S., V (1724), p. 93], l'arcivescovo Landolfo tolse dallo squallore, in cui giacevano, i corpi dei SS, Marciano, Doro, Potito, Felice, Cervolo, Stefano; li tenne prima esposti solennemente e poi li tumulò in tomba più decorosa.
Intanto, una trentina d'anni prima, nel 1088, il corpo di S. Potito, si sarebbe trovato a Cagliari e di lì sarebbe stato trasportato, con S. Efisio, a Pisa. La notizia proviene da due codici romani del sec. XVI-XVII, il 91 della Biblioteca Alessandrina e l' H. 3 della Vallicelliana [A. Poncelet, Catalogus codicum hagiograph. latin. bibliothecarum Romanar., p. 169, 1; p. 407, 28]. Nei codici citati, dopo il solito explicit (o desinit) della passio:"Martyrizatus est autem beatus Potitus die iduum ianuarii, cum esset tredecim annorum" segue:"Cuius venerabile corpus in Sardiniam postea deportatum est et in loco eodem ubi beati Ephesi humatum fuit, honestae traditum sepulturae. Sed post multorum annorum curricula, videlicet anno ab incarnatione domini nostri Iesu Christi 1088, pretiosa istorum corpora, scilicet Ephesi et PPotiti, Pasae com magna frequentia cleri et populi, cum imnis et laudibus in basilica sanctae Dei genitricis semperque virginis Mariae XIII kal. septembris decentissime sunt collocata".
Nell'ipotesi che nel 1088 realmente vi fossero in Sardegna reliquie di S. Potito, quando vi sarebbero giunte? Secondo il Rosario, di S. Potito fu importato il culto in Sardegna dai Pisani, che lo avevano appreso nelle loro spedizioni per le crociate e nei loro frequenti commerci in Puglia. Per i commerci si può essere d'accordo, ma la prima crociata è posteriore al 1088. Il canonico sardo Felice Putzu, in una lettera scritta il 12 agosto 1942, a Mons. Delle Nocche, Vescovo do Tricarico, dice che a Cagliari c'è chi asserisce che le reliquie dei SS. Efisio e Potito partirono da Pula (archidiocesi di Cagliari), ove tra le rovine della città di Nora esiste ancora una chiesa di s. Efisio nel luogo del suo martirio; che potrebbe esserci stato un equivoco tra Puglia e Pula, che si troverebbe, talvolta, scritta Pulla e che, per la pronuncia dell' l mouillée, si dovrebbe leggere Puglia. Ma l'Apulia, come luogo del martirio di S. Potito è indicata in codici del sec. IX e X, quando di l mouillée non è il caso di parlare. Quanto alla presenza delle reliquie di S. Potito in Sardegna, però, il Putzu confessa:"come siano venute in sardegna dalla Puglia reliquie di S.Potito, non sappiamo".
Se tra l' 831 e l' 839 Sicardo trasportò S. Potito, dalla Puglia a Benevento, quando e da dove giunsero reliquie in Sardegna? Non mi sembra ragionevole negare fede alla traslazione di Sicardo, se si dovesse, in cambio, prestarla alla traslazione in Sardegna. Sicardo opera nel suo ducato, e la notizia della traslazione a Benevento non solo proviene dalla regione a cui appartiene il santo, ma riceve una conferma dalla notizia del 1119 di Falcone Beneventano. Del resto, potettero anche, commercianti di transito per la Puglia credere di portare con loro, realmente, reliquie di S. Potito in Sardegna. Chi sa come sono andate spesso queste faccende delle reliquie, non se me meraviglierà.
Il culto di S. Potito a Pisa, dal sec. XIV in poi, è leggermente documentato: basterebbe ricordare le storie di S. Potito dipinte nel camposanto pisano da Spinello Aretino tra il 1390 e il 1392.
Altre notizie furono inviate a Mons. Delle Nocche dalla Sardegna. Papa Callisto II in un 6 giugno, tra il 1119 e il 1124, avrebbe consacrato a Pisa un altare nel Duomo in onore dei Ss. Efisio e Potito. Questa notizia non è esatta. La nuova ecclesia S. Mariae, a Pisa, la consacrò Gelasio II, il 26 settembre 1118 [Jaffè-Loewenfeld, Regesta Pontificum Romanorum, I, p. 778; P. Fr. Kehr, Italia Pontificia, III, (1908), p. 335]. Che l'abbia consacrata Callisto II, è un errore di Bosone [nella Vita Calisti II, Duchesne, Liber Pontificalis, II, p. 337]; di Callisto II si sa solo che a Pisa, tra il 7 e il 16 maggio del 1119 consacrò, nella ecclesia maior, quaedam altaria.
Nel 1500 o 1506, reliquie di S. Potito furono ritrovate a Tricarico, città vescovile. in Lucania, che venera il santo come suo patrono principale. Se di quello che una volta fu ricchissimo e prezioso archivio Capitolare di Tricarico, si conservassero ancora tutti i documenti, credo che molto di più sapremmo del culto di S. Potito. Purtroppo non rimane, di particolarmente importante, per la storia ecclesiastica di Tricarico, che il volume degli Atti della S. Visita compiuta nel 1588 dal vescovo Giovanni Battista Santonio. Riferisce il Santonio che, nel procedere alla ricognizione delle reliquie conservate nella cattedrale, fu trovata nella cappella del Sacramento una cassetta di legno tutta rivestita di stagno e in essa una pietra marmorea della lunghezza e larghezza di circa 13 centimetri con la scritta Reliquiae sancti Potiti martiris, e "multa ossa ac fragmenta eiusdem sancti Potiti tum capitis tum et membrorum". Il Santonio procedette a un'inchiesta, per spiegarsi la presenza di queste reliquie. Tra gli altri testimoni, il canonico Marchesius Vitalis, di 58 anni dichiarò di aver sentito raccontare da sua padre Vitale de Vitalis che le reliquie di S. Potito e altre erano state ritrovate in diverse cassette nell'anno 1506 (o 1500) nell'altare maggiore della chiesa della SS. Trinità, che era commenda dell'Ordine Gerosolimitano e che era posta "in territorio Tricaricensi per miliare longe a civitate". Quelle reliquie erano state ritrovate, quando il vescovo del tempo procedette alla rimozione dell'altare. Fu poi celebrata una solenne processione per trasportare le reliquie dsalla SS. Trinità nella cattedrale della città. Il Vipera [M.V. Vipera, Catalogus sanctorum, (Neapoli 1635), p. 3-6] dà anche lui notizia di questa traslazione, e cita come fonte d'informazione: "Ex Biblioth. beneventana, in ms. Codice de gestis Sanctorum, par. I. signata numer. 167. pag. 366".
Il Liber censuum [M.P.Fabre, Le Liber censuum de l'Eglise romaine, fasc. I, (Paris 1889), p.26] a proposito delle diocesi dell'Apulia, ha "In episcopatu Tricaricensi Ecclesia sanctae Trinitatis I unciam auri". "In episcopatu Venusino Excclesiam sanctae Trinitatis unam unciam auri". Il Fabre, per la chiesa della Trinità in Tricarico annota:"je n'ai pas pu identifier cette église de la Trinité: il y a eu. je crois, une erreur (ce n'ste pas la seule qui se recentre dans le L.C.), et je pense que cette indication fait double emploi avec celle de la Trinité de Venose que nous trouvons ci-dessous". Se fosse stato a Tricarico, il Fabre si sarebbe subito convinto della reale esistenza della chiesa della Trinità non solo con la lettura della S. Visita del Santonio, ma anche con l'osservazione diretta degli avanzi dei muri perimetrali, i soli superstiti, della chiesa. Mentre della chiesa della Trinità di Venosa sappiamo che fu fondata da Gisulfo di Salerno nel 942, e riccamente dotata da Roberto Guiscardo nel 1063, nessuna notizia conosciamo della origine della SS. Trinità di Tricarico. E' verosimile che sia sorta alla stessa epoca, press'a poco, della Trinità di Venosa, e che la presenza in essa delle reliquie di S. Potito si possa spiegare con il fluire, attraverso quelle regioni, di cavalieri crociati e di Normanni. Se della esistenza delle diocesi di Tricarico fossimo più sicuramente informati per l'età anteriore al sec. [la prima notizia che ci sia giunta sulla storia ecclesiastica di Tricarico, ci viene da Liutprando vescovo di Cremona (920-973 circa). Nella sua Relatiode legatione Constantinopolitana, 62 (M.G.H. Scriptores, t. III, p. 361) egli scrive: Scripsit itaque Polyeuctos Constantinopolitanus patriarcha privilegium Hydrontine episcopo, quantinus sua auctoritate habeat licentiam episcopos consecrandi in Acirentila, Turcico, Gravina, Maceria, Tricarico, qui ad consecrationem domini apostolici pertinere videntur. Polieucto era, per questo provvedimento, l'esecutore della volontà dell'imperatore Neceforo Foca (963-969). Il oasso di Liutprando viene comunemente inteso nel senso che in forza del decrerto di Niceforo sarebbero sorte le cinque nuove diocesi di Acerenza, Tursi, Gravina, Matera, Tricarico; l'Arcivescovo di Otranto avrebbe ricevuto dal patriarca di Costantinopoli il privilegio di diventare in metropolita, creando queste cinque diocesi suffraganee. J. Gay, L'Italia meridionale et l'empire byzantin (Paris 1904), p. 352; L.Brehier, Vie et mort de Bysance (Paris 1948), p. 212. Il provvedimento mirava ad escludere l'ellenizzazione al clero della Puglia. Non sono convinto che le cinque diocesi abbiano cominciato ad esistere tra il 9634 e il 969. Acerenza, per lo meno, esisteva alla fine del sec. V; il vescovo Giusto è tra i firmatari del sinodo romano del 499. Del resto non è detto che una popolazione cristiana a Tricarico abbia cominciato ad esistere solo quando è stata istituita la diocesi, le origini della storia religiosa di Tricarico non sono necessariamente legate al decreto di Niceforo Foca], si potrebbe pensare a migrazione del culto dovuta al fatto che Tricarico non è lontana da Potenza e da venosa, posta sulla direttrice di quella via Herculia, alla quale è legato il teatro del martirio, e quindi del primo luogo di culto di S. Potito.
Nella storia del culto di S. Potito, Napoli occupa il primo posto. Non per il calendario marmoreo soltanto, ma per un'altra notizia, che, sebbene consegnata in un codice del sec. IX, ci riporta agli ultimi anni del sec. IV o ai primi del V.
Il codice Vaticano latino 5007, scritto, nei ff. 1-100, in caratteri unciali, verso la metà del sec. IX, che ci ha tramandato il Liber Pontificalis Ecclerdiae Neapolitanae [D. Mallardo, Storia antica della chiesa di Napoli, (Napoli 1943), p. 1 ss],al f. 10 v, nella bibliografia del vescovo Severo ha: et fecit mon.sti Martini ert asci Potiti marty [G.waitz, scriptores rerum langobard. et italicar. saec. VI-IX, p. 405]. Il vescovo Severo rella la chiesa dal 363 al 410 circa. La notizia ora riportata è stata aggiunta al testo, in fine di pagina, in unciale anch'essa, in un secondo momento, ma non dopo il sec. IX: ma non è una interpolazione. essa infatti comparisce anche nel cosiddetto Catalogo Bianchiniano, che è un compendio del Liber Pontificalis, redatto ai primi annii del sec. X ma tratto probabilmente da un codice diverso dal vatic. lat. 5007, et fec. sxci Martini et asci Potiti monas. [ibid., p. 437]: così nell'unico codice che ci abbia conservato il Catalogo, il Laurenziano 604. Anche la Vita S. Sbveri, contenuta nel codice Corsiniano 777, del sec. XII-XIII, che attinge al Liber Pontificalis, ha la notizia: et fecit duo monasteria sancti Martini Christi confessoris il sancti Potiti Martyris [B. Capasso, Monumenta Neapol. Ducatus, t. 1, p. 273]. Se il Catalogo Bianchiniano non dipende dal codice Vat. lat. 5007, ma da altro codice del Liber Pontificalis, si ha un argomento in più in favore della tesi che la notizia sui monasteri di S. martino e di S. Potito era nell'archetipo del Liber Pontificalis. Nulla di inverosimile c'è nella erezione di un monastero nei primi anni del secolo V, a Napoli, per parte del vescovo Severo. Alla osservazione d'indole generale che la seconda metà del sec. IV è precesamente il tempo in cui si diffondeva il monachesimo in Italia, specialmente in Campania e nella Sicilia, e alla notizia di Palladio [Palladius, Historia Lausiaca, 61, (Robinson, II, 156)] il quale ricorda che Melania iuniore eresse chiostri in Sicilia, Campania e Africa, è importante aggiungere che a Napoli l'esempio veniva dal vicino asceta di Nola, Paolino, che doveva ben conoscere Severo e che non è improbabile sia stato al vescovo Severo legato d'amicizia. Quando, nel 400, Melania la seniore, la grande amica di Rufino, sbarcò a Napoli per recarsi a Nola da S. Paolino [Paulin. Nolan., epistol. XXIX, 12], era vescovo di Napoli Severo.
L'amicizia poi tutta particolare, di Paolino per l'autore della Vita Martini, Sulpicio Severo, e il fatto che la Vita Martini arrivò a Nola nel 396, ed ebbe qui larghissima diffusione, e fu portata da Paolino anche a Roma [Paulin. Nolan., Epistol. XI, 11 (della primavera del 387); Sulpic. Sever, Dial. 1 a 23], rende più che verosimile la erezione da parte di Severo di un monastero intitolato a S. Martino, e quindi la notizia ad esso collegata di un monastero a S. Potito.
Il monastero di S. Potito sorgeva a breve distanza dall'episcopio e dalla basilica Costantiniana, presso il decumano superiore della Napoli romana, nella località detta oggi Largo Avellino [C. D'Engenio Caracciolo, Napoli sacra, (Napoli 1624), p. 599; G. A. Galante, Guida sacra della città di Napoli, (Napoli 1872), p. 406]; sono ancora visibili le sagome delle arcate dell'ultimo chiostro andato distrutto. Al principio, infatti, del sec. XVII, le monache, così per trovare aria migliore, come per far piacere al Principe d'Avellino, Camillo Caracciolo, che voleva dare una più decorosa prospettiva al suo palazzo posto di fronte al monastero, si trasferirono in sito più aperto. Con breve di Paolo V, vendettero l'antico monastero per 1300 ducati e ne edificarono uno nuovo fuori la Porta di Costantinopoli, in luogo alquanto elevato, e vi si stabilirono nel 1614. nel 1809 le monache furono espulse, e il convento adibito a caserma dei carabinieri [Salvatore Farfaglio, edifici monumentali annessi alle principali caserme dell'arma dei carabinieri di Napoli, (Napoli 1950), p. 81-100]: la chiesa il 27 marzo 1827 fu concessa agli Ufficiali dei banchi. La tribuna è decorata con scene del martirio di S. Potito, eseguite da Nicola de Simone (sec. XVII, prima metà) e Giacinto Diana (1784). E' motivo, però, di vivo rimpianto che l'antichissimo monastero sia andato distrutto; con le memorie e i suoi codici, credo, pagine importanti della nostra storia sono andate perdute.
Il monastero di S. Potito è dagli scrittori designato comunemente come monastero di monache: tale era certamente nella prima metà del sec. XVI, ma due scrittori napoletani [Pietro de Stefano, Descrizione dei Luoghi Sacri della Città di Napoli, (Napoli 1560), p. 176; St. D'Aloe, catalogo di tutte le chiese ed oratori...di Napoli, (Napoli 1885), p. 167]; l'uno del 1560, l'altro della metà del 1600, asseriscono che "Santo Petito è un monastero posto nella strada de puzzo Bianco, ove stavano Monaci di san Benedetto, dopo uscirono detti monaci, et vi entrarono Monache di detto ordine"; "S. Potito Martire era una chiesa con un monasterio di monaci dell'Ordine di S. Basilio molto antico fondato circa l'anno 350 nella regione di Pozzo Bianco...dopo molti anni fu lasciato da detti monaci, e vi furono introdotte monache dell'istesso ordine, e poi in processo di tempo presero la regola di S. Benedetto".
Un documento del 1140 [B. capasso, Monum. Neap. Ducatus, t. 1., p. 142-143; nota 4] fa parola di un Sergio, 'hebdomadarius' della basilica Stefania (la cattedrale del tempo), il quale s'impegna verso l'abate del monastero dei SS. Sergio e Bacco a "omne officium sacerdotale exhibere, vesperas et matutinos, missas horas et laudes canere" nella ecclesia vocabulo sancti Potito Christi martyris de regione Marmorata [per le regioni marmorata e Summae plateae, B. Capasso, Topografia della Città di Napoli al tempo del ducato, (Napoli 1892), p. 42, 45] chiesa di cui egli è nominato custode. Si tratta di una chiesa diversa dal monastero. Questo veniva a trovarsi nella regio Summae plateae che "si stendeva dai Santi Apostoli fin dove era ha principio la strada Anticaglia. Successivamente si mise pure di Pozzo Bianco". Ora, è nella strada di pozzo bianco che il De Stefano pone il monumento di S. Potito. La chiesa, invece, attestata nel 1140 era nella regio Marmorata, confinante con quella di Summa platea, ma ad occidente d' essa.
Un'altra chiesa intitolata a S. Potito sorgeva a Capua, in una località detta Campo de fenile: l'unica copia superstite del documento, inedioto, del 1125 è presso di me.
Ad una località dell'Italia meridionale non ben definita, ma comunque nell'ambito della Badia di Montecassino, ci riporta la storia del culto di S. Potito, nella seconda metà del sec.IX, leone Marsicano [Chronica monasterii Casinensis, in M.G.H. Scriptores, t. VII, p. 604] scrive che l'abate Bertario (856-883) fecit libellum Guidoni comiti de Sancto angelo de Varriano et de Sancto Potito cum omnibus pertinentiis earundem ecclesiarum. Il De Meo [A. Di Meo, Annali crit. diplom. del regno di Napoli, ann. 864, 2] così parafrasa il documento: "L'abbate Bertario diede al Conte Guido, vita di lui durante, l'usufrutto del monistero di S. Angelo di Varriano, e di S. Potito, colle loro pertinenze e 900 moggia di territorio, e si prese da lui di presente 500 soldi, per avere poi l'anno censo di 7 mancosi". Il fatto si riferirebbe all'anno 864. Il continuatore di Leone Marsicano, Pietro Diacono cassinese [Chronica monasteri Casinensis, IV, 21] fa menzione, per l'anno 1101, di un balneum iuxta ecclesiam sancti Potito.
La Biblioteca Capitolare di Benevento, possiede un "Necrologium S. Spiritus" (cod. 28 dei sec. XII-XIV). Alla Confraternita omonima, a cui il codice apparteneva erano ascritte tutte le parrocchie di Benevento ed anche parrocchie dei paesi vicini. Fra le parrocchie locali figura la "Parrocchia S. Potiti" (carta 56 r). Il numero degli obiti segnati per questa parrocchia, per lo spazio di due secoli, è di novantadue (da una cortese informazione del ch.mo prof. A. Zazo).
Del culto di S. Potito ci dà notizia, per l'anno 839, un'altra cronica monastica [V. Federici, Chronicon Vulturnense, (Roma 1925), I, p. 297]. Si agitava una causa tra il vescovo di Benevento e il monastero di S. Maria in Lagosano, per il possesso di una chiesa di S. felice. Il principe Sicardo aggiudica al monastero la chiesa. i difensori del monastero dicono nel loro esposto: Iohannes episcopus cognovit bonitatem Guetichis presbyteri, sic ei contradidit ipsa ecclesia ex Sancto Nicandro, Sancto Angelo, et Sancto Potito, que parrocie de Quintodecimo peretinuerunt, et actenus pertinere videntur. dal documento apparisce che le chiese di S. Nicandro, S. Angelo e S. Potito spettavano a Quintodecimo. Quintodecimo è la stessa cosa che Aeclanum, la chiesa di cui fu capo il celebre antagonista di S. Agostino, il vescovo Giuliano, nota anche per la traslazione di S. Mercorio di Cesarea [H. Delehaye, La transatio S. mercurii Beneventum, in Mélanges God. Kurth. (Liège 1908), t. I, p. 17-24; G. Waitz, o.c., p. 576, 34; 577, 5; 578, 27], e passata poi nella diocesi di Frequentum (Frigento). Posta, nel Sannio, sull'Appia, non era che poche decine di chilometri distante dal confine dell'Apulia, la regione propria di S. Potito.
Non voglio omettere di segnalare altre due notizie, sebbene mi sia mancato il modo di vagliarle a fondo. nell'opera di Francesco Savini, septem Aprutienses medii aevi in Vaticano tabulario [Analecta Bollandiana, ann. 709, 2], sono raccolti i monumenti delle sette diocsi abruzzesi, contenuti negli archivi vaticani. Tra i santi di cui le lettere e i registri permettono di constatare il culto negli Abruzzi, vi è Petitus. Si tratta di S. Potito? Non sono alieno dal crederlo. Ancora oggi nella parlata meridionale la vocale o, nella pronuncia del nome di S. Potito, si smorza in e. (V., ad es., il De Stefano, riportato prima). Inoltre una seconda testimonianza di questa forma trovo in un documento del tempo del duca di Benevento Romualdo II (706-731). Da essa apparisce che per rogum Annumis Actionarii nostri, Romualdo concede a Teodorico abate di S. Pietro ad Aquam Sancti Petiti, alcuni servi e coloni in Gratino o Graziano. Actum in Borfiniano (al. Borfiniana) [A. Di Meo, Annali, ann. 709, 2]. Finalmente, tra le località dell'Abruzzo, il Giustiniani [L. Giustiniani, Dizionario geografico del regno di Napoli, (Napoli 1804), p. 217] segnala Sanpotito o Santopetito, terra in Abruzzo ulteriore, compresa nella diocesi dei Marsi distante dall'Aquila miglia 17. Se la località, detta nel diploma del duca Romualdo ad aquam sancti Petiti, prende nome dal martire dell'Apulia, abbiamo una prova della diffusione del suo culto aio primi del sec. VIII.
Termono col ricordo di due comuni della Campania che portano il nome di S. Potito, l'uno in provincia, prima di Caserta, ora di Benevento; l'altro detto anche S. Potito Ultra, posto nella circoscrizione detta una volta Principato Ulteriore, in diocesi di Avellino. A proposito di che, ricordo che l'Ughelli, attingendo dal ferrari scrive: fertur etiam corpus S. Potiti apud Abellinos in Hirpinis asservari [Ughelli, I, (1718), 368]Checché si pensi del corpo, (deve trattarsi di qualche reliquia) conservato ad Avellino, il nome del Santo dato al Comune postula un culto speciale reso al santo nella località che da lui prese il nome.
La Campania, l'Irpinia, la Lucania, a non tener conto dell'Abruzzo, hanno conservato tracce insigni del culto del martire Potito. La sua storicità non può essere revocata in dubbio. Le testimonianze del culto danno consistenza al dato accettabile della passio, la coordinata topografica, e la confermano, in quanto il centro d'irradiazione del culto è la regione in cui la passio pone il martirio, precisamente l'estremo lembo della Hirpinia confinante con l'Apulia. Qui, in Apulia, inter Sentianum et Baleianum, Potito versando il suo sangue impreziosì il martirologio dell'Italia meridionale.
NOTA: Memoria letta dal socio nazionale Domenico Mallardo nella tornata dell' 8 giugmo 1955.
---